C’mon Tigre / Twist Into Any Shape [ O.V. ]
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7 Febbraio 2024Eredità difficili
Una delle frasi più belle di Antonio Paolucci, riferita ieri dalla lucida e toccante testimonianza di Antonio Natali per questo giornale, è quella consolatoria, pronunciata magari dopo la soluzione di questioni complesse o che qualcuno aveva voluto rendere tale: «Grazie a Dio crediamo in qualcosa di superiore». Solo a una lettura frettolosa può apparire come una professione di fede di un intellettuale di forte impronta cattolica. Ma, senza voler addentrarsi nell’esegesi di quella espressione o, peggio, in una sua arbitraria interpretazione, è difficile non pensare che quel «qualcosa di superiore» fosse riferito anche a una più laica visione di ciò che oggi chiamiamo bene comune. Per il quale vale la pena di sopportare anche la mediocrità, di battersi per la ragionevolezza, ponendo in secondo piano anche le pur umanissime carezze al proprio ego. Che non vuol dire non avere contezza della propria personalità e del suo peso, che del resto Paolucci ha sempre avuto ben presenti, ma mai metterla avanti a una visione del mondo e delle cose in cui sia ben saldo in primo piano l’interesse del bene comune. Ora, non essendo stato Paolucci un missionario in senso stretto ma un uomo di cultura, della gestione e organizzazione di essa, un funzionario dello Stato, la sua morte rende ancora più rara — e forse scomparsa anch’essa con lui — questa caratteristica nel panorama dell’attuale classe dirigente.
Quanti possono oggi dire, nelle articolazioni della politica, dell’economia e della cultura, in quel variegato mondo dei cosiddetti corpi intermedi che rappresentano i luoghi dell’elaborazione dei progetti di una città come Firenze, di rallegrarsi per il fatto che esista «qualcosa di superiore» da servire rispetto alle aspettative di un solo gruppo o di desideri personali? Anche perché alla radice di questa convinzione ci deve essere una lucida e lungimirante visione della prospettiva e dei processi. Vengono i brividi a pensare che risalgono agli anni Novanta le riflessioni critiche di Paolucci che portarono poi all’espressione one-company-town , legate alla presunzione che l’economia di Firenze potesse girare solo attorno al turismo di massa. Sono addirittura antecedenti quelle su un modello di città intesa come genius loci che fosse museo diffuso non solo delle opere e del patrimonio artistico, ma anche dei propri saperi. Idee allora innovative che ci fanno pensare al dibattito di oggi come a uno stucchevole déjà vu. Quando l’era-Covid non era neanche cominciata aveva scritto che «il turismo culturale, almeno nelle sue forme attuali, è un fenomeno volatile e costoso in termini di consumo della città e di effetti negativi indotti sulla popolazione. L’insieme dei saperi e dei mestieri ramificati nella città e nel comprensorio è invece una realtà durevole, saldamente attestata, internazionalmente riconosciuta e apprezzata». Mentre cantavamo dai balconi sognando un esito diverso dal ritorno a una normalità che aveva già mostrato la sua fragilità, aveva previsto che neanche la pausa pandemica avrebbe suggerito una resipiscenza capace di invertire il corso delle cose, che sarebbero andate come prima, peggio. Elementi tali da farci capire che occuparsi della cosa pubblica non può prescindere dalla capacità di guardare lontano, dalla convinzione che vi sia «qualcosa di superiore» alle proprie e alle comuni miserie quotidiane, per cui impegnarsi con spirito di servizio. È una delle eredità che Paolucci lascia, difficile da praticare. C’è chi sui social ha scritto che con lui si è perduto lo stampo di persone simili. Difficile dire se sia proprio così. Tuttavia, è ancora più complicato trovare qualcuno che di quello stampo porti davvero ancora l’impronta.
Stefano Fabbri
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