di Karima Moual
Si chiamava Dosso Fati, mentre la sua bambina, di poco più di sei anni, si chiamava Marie. Sono i nomi di mamma e figlia morte abbracciate nel deserto al confine tra Libia e Tunisia, che hanno un volto grazie al sito di Libiye actualite. Quel volto che non avevamo quando pubblicammo la loro foto di spalle di una potenza indecifrabile, diventata il simbolo dell’orrore di cui si sta macchiando la Tunisia con la deportazione forzata dei subsahariani verso la Libia. Un’iniziativa disumana di cui l’Europa, e ancora peggio Giorgia Meloni, non può dirsi estranea, per la credibilità, la legittimità e l’accreditamento che è stato dato al presidente Kaies Saïed con l’ultimo memorandum, che di fatto gli mette in mano le chiavi per guidare la gestione dell’immigrazione, esternalizzando le frontiere europee. Lui ringrazia – in barba a tutti i trattati internazionali in difesa dei diritti umani – continuando, mentre è ospite a Roma al summit sul partenariato con l’Africa, le deportazioni dei migranti subsahariani, lasciati in mezzo al deserto con più di 50 gradi senza acqua né cibo.
Di Dosso Fati e Marie non conoscevamo il loro volto e nemmeno da dove provenissero perché le loro spalle erano girate verso l’inferno, abbandonate con i loro corpi con la faccia dentro la sabbia. E chissà se quella mamma prima che si spegnesse, dentro il buio pesto della notte dove è morta l’umanità, non abbia cantato l’ultima ninna nanna alla sua piccola Merie per lenire l’inferno di quel dolore che abbiamo deciso di infliggere a chi cerca solo di sopravvivere. Lei e la sua piccola provenivano dalla Costa D’Avorio, sono finite in Tunisia come tanti migranti speranzosi di potersi avvicinare a un sogno, quello della sopravvivenza, la chimera Europa.
Mentre ricostruiamo l’identità di queste ultime vittime, i video e gli scatti dell’orrore continuano a provenire dal deserto al confine tra Libia e Tunisia, un fronte di una guerra senza bombe: basta la violenza dell’indifferenza, l’abbandono in mezzo al nulla, il deserto che diventa una fossa comune uguale al mare mediterraneo.
Sono immagini di donne, uomini giovani e meno giovani, bambini e neonati che si trascinano con il dolore, le lacrime e le grida soffocate. Hanno le bocche spalancate in cerca di qualche goccio d’acqua che gli viene portata con delle bottigliette dalle guardie libiche. Si buttano letteralmente per terra, in ginocchio, inchinati ai loro piedi, chiedendo pietà. Sono immagini raccapriccianti, dolorose e inaccettabili. Di chi dalla Nigeria, dalla Costa d’Avorio o dal Congo si è trovato dal giorno alla notte cacciato dalla Tunisia.
Al confine c’è un papà con una bambina di appena 3 mesi. Ha attraversato a piedi tutto il deserto, sua moglie non ce l’ha fatta. Il pianto della bambina è infinito. Un altro giovane proviene dalla Nigeria, ha il volto bruciato e non nasconde le lacrime ininterrotte per aver perso la compagna e una figlia. «Mi sono perso nel deserto perché mi sono allontanato un po’ in cerca di acqua e cibo – racconta -. Dopo non sono più riuscito a trovarle». È un uomo disperato e svuotato dal dolore. Con l’alto parlante delle guardie libiche prova a chiamarle, a gridare il loro nome. Senza risposta.
E poi ci sono i cadaveri. Pelle bruciata dal sole, disidratata e abbandonata tra le sabbie del deserto. Sembra che la nuova politica europea, che ha scelto il presidente Saied come guida per la gestione dell’immigrazione, sia intenzionata a confinare gli africani nel deserto, che è come mandarli a morire. Quante immagini ancora bisognerà pubblicare perché la nostra umanità e pietà venga risvegliata.
C’è una verità indicibile: la solidarietà, l’empatia e l’umanità verso l’altro sono anch’esse razziste. Perché altrimenti non si spiega il silenzio, il disinteresse verso una tragedia umana che riguarda i migranti africani per cui non valgono gli stessi diritti e le stesse tutele che abbiamo fatto valere per altri disgraziati, che in altri casi erano bianchi.