Francesco: scandali finanziari danno per la Chiesa e la fede
22 Aprile 2023Delirium – Jesahel – 1972
22 Aprile 2023di Flavia Perina
Merita un approfondimento la difficoltà della destra a inserire in una mozione ufficiale o in un discorso sul 25 aprile la parola “antifascismo”. Quella parola è stata sdoganata vent’anni fa dalle tesi di Fiuggi, in un passaggio che vale la pena di citare testualmente: «È giusto chiedere alla destra italiana di affermare senza reticenza che l’antifascismo fu un momento storicamente essenziale per il ritorno dei valori democratici che il fascismo aveva conculcato». Eppure, si fa fatica a dire antifascismo. Anzi, non lo si dice proprio, trincerandosi dietro giustificazioni che spesso sanno di arrampicata sugli specchi. Molti insistono sulla questione dei partigiani comunisti, che avrebbero voluto il passaggio da una dittatura filo-tedesca a una filo-sovietica; la sinistra gli ricorda che quei comunisti accettarono comunque la democrazia e si acconciarono al giudizio delle urne che li mandò da subito in minoranza. Il presidente del Senato Ignazio La Russa dice che nella Costituzione quella parola non c’è e dunque non è obbligatorio pronunciarla; il Pd fa presente correttamente che ogni singolo capitolo della Costituzione è scritto in diretto contrasto al fascismo e per di più esiste una disposizione transitoria che vieta di ricostituire il Pnf. Ma il conflitto sui termini e su ricostruzioni storiche spesso abborracciate non è il nocciolo della questione. E adesso che la destra è al governo, ora che guida il Paese ed è titolare dei nostri rapporti internazionali – non più una piccola forza di opposizione, di cui era lecito disinteressarsi, ma il partito di maggioranza relativa – sarebbe necessario andare oltre questo tipo di botta-e-risposta.
La destra potrebbe, ad esempio, ammettere che ha fatto a lungo fatica a dirsi “antifascista” non tanto per motivazioni ideologiche o di merito ma per il proprio portato biografico, per la somma delle sue esperienze personali che poco hanno a che vedere con il fascismo storico o con l’idea di ricostruirlo e molto con gli anni dell’antifascismo militante: la categoria politica che tra i ’70 e gli ’80 fu utilizzata dalle Brigate Rosse e dalle sigle terroriste collegate per giustificare attentati e agguati contro perfetti innocenti. Abbiamo appena ricordato (lo ha fatto anche il Pd con due importanti discorsi di Walter Verini e Miguel Gotor) la strage di Primavalle, dove quel principio agì in modo così vergognoso che le stesse organizzazioni di riferimento preferirono evitarne la rivendicazione. La parola antifascismo, per la “vecchia” destra italiana, non è legata solo ai cortei del 25 aprile o alle celebrazioni dell’Anpi, ma anche alle azioni di chi a distanza di un trentennio dalla caduta del fascismo riteneva giusto continuare a uccidere fascisti o presunti tali: studenti di destra come Sergio Ramelli, padri di famiglia come Giuseppe Mazzola e Graziano Giralucci, e l’elenco potrebbe continuare con una vicenda molto nota a Torino, l’assalto incendiario al bar Angelo Azzurro con la morte di un assoluto incolpevole che inorridì anche il vecchio Pci e lo spinse a organizzare pubblici e solenni funerali.
Superare questo portato biografico è uno sforzo immane, ma se lo ha compiuto vent’anni fa la destra che di quei fatti fu diretta protagonista e a volte vittima, la destra che si riunì a Fiuggi ancora fresca dei ricordi legati all’antifascismo militante, può ben riuscirci una destra più giovane, che a quella antica vicenda ha partecipato solo marginalmente o addirittura per sentito dire. Non dovrebbe agire per “cedere a una pretesa degli avversari”, come qualcuno dice, ma per dare un segnale della nuova storia di cui si dichiara protagonista, la storia di un’Italia pacificata che non ha più paura delle parole e dei fantasmi del passato. E anche per restituire un valore alla fatica politica, personale, biografica, di “quelli di prima”, che si sono sforzati di superare le loro reticenze per rendere incontestabile e definitiva non solo l’adesione ai valori della democrazia ma anche l’addio alle casematte della guerra civile post-bellica.