Perché siamo alla fine della fine della storia
27 Dicembre 2024Buffalo Springfield – For What It’s Worth 1967
27 Dicembre 2024Novecento Interlinea pubblica, a cura di Benedetta Ziglioli, l’epistolario tra gli autori, 346 missive. E una idea condivisa: i versi sono vita
Un sodalizio durato 40 anni, dove i ruoli maestro e allievo si confondono. La fiducia nell’arte
di Paolo Di Stefano
Non è facile trovare un carteggio ricco di verità e di poesia quanto quello tra Carlo Betocchi e Giovanni Raboni. Due poeti che potrebbero essere padre e figlio: 1899 è l’anno di nascita del primo, 1932 l’anno di nascita del secondo. Torinese cresciuto a Firenze il primo, milanese milanese il secondo. Si conoscono nell’aprile del 1953 al Teatro delle arti di Roma, dove il ragazzo Raboni, studente di giurisprudenza, viene premiato al concorso per poesie inedite promosso dall’associazione «Incontro della Gioventù», con una giuria di gran prestigio, composta da Attilio Bertolucci, Adriano Grande, Enrico Falqui, lo stesso Betocchi e Ungaretti presidente. L’opera premiata è la raccolta Gesta Romanorum, opera prima che andrà smarrita tra le carte dell’autore e che sarà recuperata da Luca Daino in anni tardi nell’archivio di Betocchi depositato al Gabinetto Vieusseux.
«L’unico maestro che io abbia veramente avuto»: così Raboni ricordava il rapporto con Betocchi, riconoscendogli grandi meriti nella sua maturazione poetica: «S’era preso a cuore il mio lavoro, e mi ha seguito con una generosità, con una pazienza, con una intelligenza, con una severità veramente meravigliosa». Questo accudimento paterno viene testimoniato dalle 346 lettere datate tra il 1953 e il 1982 e riunite da Benedetta Ziglioli nel volume Le cose buone e vere appena edito da Interlinea (introduzione della curatrice con Maria Teresa Girardi). I motivi su cui i due corrispondenti si intrattengono, con intensità soprattutto nel primo decennio, sono numerosi, ma su tutti vince il discorso sulla poesia nel cui ambito la tutela di Betocchi si prolunga per anni e prosegue anche quando Raboni comincia a mostrare la sua straordinarietà di lettore e di critico, oltre che di poeta.
Non bisogna pensare che il rapporto magistero-discepolanza resti inalterato negli anni poiché, via via che la personalità dell’«allievo» va maturando, prende forma un dialogo quasi alla pari (anche se persiste quasi fino alla fine lo squilibrio tra il tu confidenziale del maestro e il lei di cortesia dell’ex discepolo). Il giudizio sulle qualità del giovane poeta è, da parte del «maestro», sin dall’inizio sempre sicuro, ma non mancano gli avvertimenti su un eccesso di letterarietà, ovvero sul rischio di una dipendenza dai modelli prediletti (in particolare Pound e Eliot) e dunque sul pericolo di comporre versi estranei all’esperienza concreta del vivere: «Stia attento — si legge in una epistola dell’agosto 1953 — a non farsi un mondo poetico su un mondo di poesia che ha avuto la sua ragione d’essere (…) in altre situazioni e legittime condizioni umane». E insiste ancora il cattolico Betocchi, poeta del realismo cristiano e della verità semplice delle cose: «Stia attento a non finire in una poesia decorazione. Perché si fa presto: e lei sta muovendosi in una chincaglieria di nomi e di oggetti che fanno spettacolo e rappresentazione (capisco che è lo spirito del secolo), ma che alla lunga, col mutare di questo spirito, sembreranno più nulla».
Non che Raboni sia distante da quel modo di intendere la poesia in relazione al senso (anche religioso) della vita. Già Daino, nel suo saggio I «bagliori degli spigoli», ha studiato i rapporti tra Raboni e il modernismo anglo-americano anche alla luce dello scambio epistolare con Betocchi, ma quel che colpisce scorrendo ora l’intero carteggio è la precocissima consapevolezza del ventenne che, pur «arrossendo», risponde al suo ammirato e intransigente mentore: «Eliot e Pound non sono, per me, dei modelli; ma sono stati, al tempo in cui li ho scoperti, la rivelazione di una misura poetica, di una dimensione entro la quale avrei potuto (non che l’abbia fatto davvero) muovermi per mio conto, con mezzi miei».
Ovviamente, gli sviluppi della poesia raboniana diranno quanto fosse esatta quella prospettiva verso un’identità propria in relazione soprattutto con il punto cruciale del realismo: nel 1956 il poeta milanese parlerà della «mia tendenza a cercare nella poesia non solo stati d’animo e idee ma anche notizie (…), grumi di realtà da trasfigurare, sì, ma anche da tenere nel dovuto conto per quello che è il loro peso effettivo». Capacità di ascolto e capacità di autodefinizione interagiscono. Fatto sta che, nonostante il laborioso confronto testuale con invii e commenti, la raccolta d’esordio rimane a lungo inedita, per essere parzialmente ripresa (e riscritta) in diverse tappe a distanza di anni. E quella che poi vedrà la luce per prima sarà, nel 1963, L’insalubrità dell’aria: nell’attesa paziente del giovane «non vanerello» e nell’attesa impaziente del suo sostenitore che a un certo punto, quasi si trattasse di una questione personale, non esita a mettere sotto accusa il temporeggiatore Vanni Scheiwiller, editore ritenuto ideale per la milanesità che Betocchi enfatizza nel considerare l’opera dell’amico lombardo. Nei cinque anni che passeranno tra la prima segnalazione all’editore e l’uscita del libro, gli accenti infastiditi prenderanno coloriture aspre: «È, il povero Vanni, veramente un uomo senza spina dorsale o (…) molto confuso, o timoroso del meglio della tua poesia (…)».
Il rapporto tra i due acquista reciprocità allorché Raboni si fa lettore critico dell’opera di Betocchi dimostrando una intelligenza che sorprende e lusinga il «maestro», il cui primo libro, Realtà vince il sogno, era già stato letto da Giovanni tredicenne. È il 17 giugno 1956 quando Betocchi ringrazia l’amico («il giovane in Italia nel quale ho maggior fiducia…») per un articolo sulla sua poesia apparso nella «Fiera letteraria» e capace di muovere l’entusiasmo e le autoriflessioni dell’interessato, che fino a tarda età non cesserà di stimare il suo «carissimo Giovanni» anche come critico, se ancora nel 1981 scrive a proposito di un nuovo intervento (questa volta su «Tuttolibri»): «Ho trovato che il tuo articolo è il più positivo, bello, e chiaro, e lucidissimo interprete della poesia che ho fatto in 55 anni (…)». Negli anni a venire, del resto, Raboni non mancherà di insistere sull’ingiustizia delle antologie nell’annoverare Betocchi tra i minori del Novecento.
Ma il carteggio Betocchi-Raboni è anche altro. È un carteggio di umanità scoperta e a volte fragile (sempre più man mano che il maestro si inoltra nella vecchiaia, nell’interrogazione di sé e in una dolorosa forma di depressione). Tornando agli anni lontani, si legga la bellissima lettera con cui Giovanni risponde alle condoglianze dell’amico qualche giorno dopo la morte di sua madre (che Betocchi aveva conosciuto sin dal primo incontro romano), rivelando la sottile materia di una religiosità per nulla ordinaria. Siamo nel novembre 1954: «Non c’è (non l’avevo nemmeno sperato) nessun vuoto nella nostra vita. La mamma (come il papà, come forse tutti i morti) non ha lasciato un vuoto dietro di sé ma invece una grande e tenace sostanza. Credo di aver proprio capito che la disperazione su di una persona morta non dura che qualche minuto. Dopo anzi è una fiducia più vasta, la scoperta di una confidenza attiva con gli assenti, il fiorire dei più allegri ricordi». Ecco affacciarsi quel senso di comunione tra vivi e morti che attraverserà la poesia di Raboni.
Si potrebbe continuare ancora per molto a segnalare i passi dolenti e i tratti di confidenza umana tra i due corrispondenti. Mi limito a segnalare la lettera del 7 luglio 1975, in cui il vecchio Betocchi, alludendo ai poeti amati (Caproni e Sinisgalli oltre allo stesso Raboni, di cui ha appena ricevuto Cadenza d’inganno), rivela al non più giovanissimo Giovanni la propria crisi interiore, il disincanto e una sostanziale sfiducia in sé: «Rifiutando io dunque d’ora in poi l’esistenza dell’anima finché non sarà riconosciuta alle formiche e ad ogni altra sorta d’animali, e desiderando ormai d’andare a dormire seco loro nella polvere per l’eterno, mi trovo ormai benissimo più con i vostri che con i miei libri».
E non è tutto. Sfogliando questo romanzo di un’amicizia poetica il lettore appassionato entrerà nella «cucina» e qualche volta nel retrobottega del mondo editoriale, troverà considerazioni sulla vita intellettuale italiana filtrata da due protagonisti di diverse generazioni ma ugualmente impegnati nel lavoro e nell’intreccio dell’industria culturale: da una parte il direttore e regista di riviste come l’ermetica «La Chimera» o «Il Verri», oppure il direttore di una rubrica importante come «L’Approdo» radiofonico; dall’altra l’animatore e il promotore di nuove iniziative editoriali (dal ’62 è redattore della rivista «Questo e altro» con Sereni, Isella e Pampaloni), il collaboratore di «Aut Aut» e poi di «Paragone», il redattore di Garzanti e il curatore di collane poetiche per Guanda e per altri. Un’attività frenetica e appassionata. La poesia sì, il lavoro sì, la critica sì, le letture sì, ma poi anche le vacanze, le famiglie, gli affetti, gli amici, i viaggi, l’arte. Si entra in questo epistolario come in un universo in cui non c’è nulla di ordinario e persino la meteorologia ha il suo fascino quando, da Londra che trova «bellissima a patto di rinunciare a cercare delle cose belle», Raboni il 10 agosto 1957 scrive semplicemente: «C’è di che dimenticare la pioggia che non smette di cadere e l’umido che penetra nelle ossa. Poi andrò in Cornovaglia a cercare un po’ di sole».