Classe 2022: Futures at Work
4 Ottobre 2022Filosofia, Mario Perniola ha cercato in sé l’origine delle proprie teorie
4 Ottobre 2022Caro Pier Paolo,
grazie dell’articolo e della franchezza. Anche il tuo articolo, in qualche modo partecipa alle leggi del mio libro, perché anch’esso è duplice. C’è una prima parte che riguarda l’ipo-romanzo con giudizio positivo, una seconda parte che riguarda il meta-romanzo con giudizio negativo. La mia obiezione e che quello che tu chiami ipo e meta romanzo non sono separabili, ma formano stilisticamente e concettualmente un unico e inseparabile romanzo, forse tutto meta. Ma procediamo con ordine; se ti va di discutere, naturalmente, sui punti del tuo articolo.
Prima osservazione: Ricatto culturale che avrei subito dall’avanguardia. Ma io, caro Pier Paolo, ho scritto sempre così! Anche quando qui nessuno scriveva così, nemmeno il tuo Wilcock. Basta guardare, alla svelta (perché non é una gran cosa), il mio primo romanzo Un giorno d’impazienza che è del 1952 per convincersi che la tecnica, le costruzioni e tutto il resto sono gli stessi di Amore e psiche (con le dovute differenze: sono passati vent’anni!). Allora l’avanguardia non poteva ricattarmi perché non esisteva. E Ferito a morte non è costruito nello stesso modo? Anche con Ferito a morte l’avanguardia non avrebbe fatto in tempo a ricattarmi. È dell’aprile del ’61 ed è stato scritto nel ’60. L’avanguardia cominciò a ricattare un po’ più tardi. Insomma respingo l’accusa del ricatto da me subito, perché inconsistente. Ciò premesso, credo che tu, nelle tue critiche e nei tuoi interventi sul Tempo, dai troppa importanza a questo ricatto dell’avanguardia: sembra una tua questione personale più che un valido criterio di giudizio. A volte, come nell’articolo su Pavese e Arbasino, sembra di leggere una favola. Insomma esageri e diventi insopportabile, a mio parere.
Seconda osservazione (breve): i quattro momenti di una praticità disarmante su cui intervengo a spiegare la mia costruzione. Perché ti sembrano tanto ingenui da una parte e ingannevoli dall’altra? Nel primo c’è adombrata una spiegazione formale (con un correlativo oggettivo: il quadro); nel secondo una spiegazione psicologica sentimentale; nel terzo un suggerimento di lettura analogica; nel quarto è adombrato il rapporto tra l’autore e il suo libro. Ho messo cioè le mie carte chiaramente sul tavolo, ho detto il mio gioco e questo, basta seguirlo attentamente e avrete tutti gli elementi per giudicarlo (bene o male, s’intende). Ti pare che tutto questo sia sbagliato o ingannevole o ingenuo? Perché? Io non lo capisco. Tu dici «praticità disarmante». Moravia è spesso di una praticità disarmante, e con questo? E poi perché disarmante? No, non capisco.
Terza osservazione: Il clamoroso meta-romanzo. Questo meta-romanzo è specificamente un’allegoria (come Teorema, mettiamo) sull’insofferenza e l’intollerabilità della vita quotidiana. Perciò tutto allude sempre al “meta”, anche le descrizioni della vita quotidiana sono in funzione del “meta”. – Mi sembra perciò, come ho detto, impossibile scindere, come pensi tu, “ipo” e “meta”. Nella vita quotidiana si fanno ogni mattina esercizi yoga? Ti sembra che io descriva proprio un esercizio yoga? E “il tempo che fa”, quell’esattezza della luce autunnale, quell’immagine di uno scoppio nell’aria, ti sembrano proprio descrizioni meteorologiche? E la casa con la moglie che strozza la cameriera? E il kamasutra, la caccia con la bambina all’amante vero o presunto della madre, tutto questo ti sembra descrizione di una normalità quotidiana tipo Ginzburg, o non piuttosto una continua allusione a quel “meta”, fallito o no, che ho sempre avuto in testa?
Quarta osservazione: Gianni. Ti posso assicurare, anche se il risultato è quello che tu dici, che Gianni non è preso di peso dalla cronaca più rettorica. Gianni non sarà riuscito come personaggio, ma è preso direttamente dalla realtà. È un mio amico che molti hanno conosciuto e che io credevo morto da dieci anni (quando ho saputo che era ancora vivo ho provato rimorso di averlo in qualche modo reso riconoscibile, perché ho temuto di nuocergli senza aver voluto). Che sia realmente esistente non prova nulla, ma almeno prova che mi sono rifatto alla realtà da me direttamente conosciuta, a un’ esperienza personale e non presa di peso dalla cronaca più rettorica. In Gianni io ho voluto introdurre un elemento di disturbo: la malattia, la schizofrenia – sempre latente e incombente. Gianni insomma dovrebbe far capire quanto è faticosa e conquistata la normalità di “lui”, del protagonista. (…)
Liberarsi dalle proprie ambiguità è un desiderio oggi vivissimo in molti, nasce dalla stanchezza per una cultura, come la nostra, che ci condiziona in modi così insopportabili; una cultura che è fondata nelle contrapposizioni tra “l’io” e il mondo, il dentro e il fuori, il soggetto e l’oggetto. So benissimo che ce l’abbiamo e ce la dobbiamo tenere. Ma come sarebbe se ce ne liberassimo per un momento per raggiungere, sia pure per un istante, una totale non-ambiguità, ma totale identificazione col mondo? Sarebbe come se, nella psiche, scoppiasse una bomba, qualcosa di simile a un cataclisma. Tu, in un precedente articolo, parlasti dei racconti zen che ti sono tanto piaciuti. Beh, qualcosa di simile avviene con la bomba. Io volevo in forma allegorica descrivere le cose al livello dell’esperienza comune, senza il misticismo o l’ineffabilità sibillina delle storie zen.
Dunque il protagonista (e non La Capria) dopo avere, attraverso un processo involontario di identificazione, avuto la conferma dell’ineliminabile ambiguità che riguarda lui, il suo rapporto con la moglie, e con tutto, esprime il proprio desiderio di sbarazzarsi di questa ambiguità con un gesto simbolico e apparentemente inutile: getta un sasso contro la propria immagine. In quel momento una serie di coincidenze fa sì che egli davvero realizzi, per un istante, quel desiderio. Fa un’esperienza, insomma. Questa esperienza, breve e fugace, il mio romanzo voleva praticamente rappresentarla in forma di allegoria – se ho fallito, mi dispiace. Ma questo avevo in mente, questo “metaromanzo” mi interessava, questa esperienza al limite, ma al livello umano e comune, e non religiosa, quotidiana. Sono di una praticità disarmante? Può darsi, e chiedo scusa. Scusami di questa lunga lettera. Non l’ho scritta per negare la validità del tuo giudizio – so che la pensano così, come te, anche Moravia, Parise ed altri – ma per dirti che*
* Il testo della lettera
termina cosi.
***
Rapallo, 9 giugno 1986
Caro Raffaele,
è un riposo poter scrivere a te, dopo aver riletto il tuo biglietto così familiare, con un suono antico. Una delle cose che ho sempre ammirato in te – e di te – è la perfezione formale, anche del vivere. Per non so quale ragione, tu non sembri trovarti mai in contrasto – contro – nessuna cosa o forma del vivere. C’era anche quella “bontà” di cui ho parlato, che per me e il valore più caro. Così si spiega perché è un riposo parlare con te. Naturalmente se uno si trova nel luogo o condizione opportuna – a qualunque pace o armonia – si tira indietro, si allontana con ammirazione (ma anche paura di se), e non parla più; preferisce anche ignorarsi (forse è questo il mutismo irrimediabile – il senso di essere un errore di Dio – che rende infelici per sempre alcune persone, anche tu ne avrai conosciute). Questo mutismo, forse, mi guidava allora, e anche quella mattina della gita che tu ricordi con tanta delicatezza. C’era la luna, di giorno? Ne sono felice, certo la vidi anch’io – ma non ricordavo questa bellezza. (…)
Caro Raffaele, come mutiamo insieme e come restiamo identici. Tu sei sempre per me il giovane Swann (non lo sapevi?), mentre io non so chi sono, non lo so ancora, ed è bene cosi. Mi sono un po’ ritrovata nei personaggi della solitudine inglese, mentre non accetto – e spero di averne il diritto – la “Spagna”. Mi resta, caro Raffaele, a riconoscermi questa – o quella antica – stanchezza del dominio del mondo – e di tutto ciò da cui sorge il mondo – del dominio sui deboli, della “crudeltà”. Sai che non posso neppure sopportare il suono di questa parola? Eppure tutta la mia esistenza ha conosciuto – come sola forza – la crudeltà. Ma non accettata. Questa è la mia grande domanda a Dio. Oggi – dico oggi come “tempo” – posso dirmi stanchissima di quanto ho vissuto, visto, compreso; e quindi, mite. E solo le opere e suoni della pace mi sono cari. Quanto ti ho scritto! Scusami. Oggi ho visto il tuo articolo sul Corriere. Scrivi, quante cose tanto difficili, splendidamente. Sono ammirata e lieta per te. Spero che la tua vita scorra quieta e bella. Sì, è possibile; devi sperarlo e volerlo. Ma resta sempre vicino all’idea del mare, voglio dire del mondo come acqua. Solo lì è gioia.
Ti saluto affettuosamente con mille auguri.
Anna Maria