PAT STEIR
28 Giugno 2022Jason Bailey, Fun City Cinema, New York in un secolo
28 Giugno 20221922-2022 È scomparso poco prima di compiere cento anni l’autore napoletano di «Ferito a morte» con cui vinse il premio Strega nel 1961
di Emanuele Trevi
Sapeva trarre da ogni frammento della realtà un riflesso interiore espresso in forma poetica In tutte le sue opere si coglie la fame di novità.
Chi ha conosciuto e frequentato a lungo il nostro indimenticabile La Capria, scomparso ieri a 99 anni, ha assistito molte volte al momento in cui quell’uomo incapace di mentire e ancor meno di dissimulare si scocciava. Nessuno più di lui amava la compagnia degli amici, la conversazione, la confidenza tra intimi. Ho sempre creduto che se la sorte gli ha concesso una vita così lunga e piena di giorni felici, è stato per compensarlo della generosità con cui disponeva del suo tempo. Riusciva (caso più unico che raro) a voler bene anche a quegli imperturbabili rompiscatole che assillano la vita dei grandi scrittori, sottoponendogli manoscritti e idee bizzarre di ogni tipo.
Eppure, tanto quanto stava bene con il prossimo, La Capria si scocciava. Noi amici più esperti scommettevamo sul momento esatto della metamorfosi. Come i bambini, iniziava a smaniare per alzarsi da tavola: anche nelle occasioni più ufficiali, magari organizzate apposta per lui («Ma come Dudù, aspettiamo il dolce!» lo imploravamo; e lui, con la più convincente e irresistibile delle espressioni: «Ma quanto dobbiamo aspettare ancora???»). Il suo adattamento sociale, la stessa perfezione inimitabile dei suoi modi, ricavavano da questa variabile un tono di autenticità impagabile. Non solo le cene troppo prolungate, ma anche i discorsi eccessivamente analitici gli facevano lo stesso effetto.
Uno degli aneddoti che ricordo sempre, perché mi sembra estremamente rivelatore, risale ormai a molti anni fa. Lo avevo accompagnato a un convegno di studiosi di letteratura. Alcuni oratori, tutti accademici di rango, avrebbero letto delle relazioni sull’opera di La Capria. Ne era sinceramente onorato, ed era anche curioso di sapere cosa quegli studiosi avevano visto nella sua opera. A un certo punto, ho notato che armeggiava nervosamente con i comandi dell’apparecchio acustico. Sfruttando l’orecchio più sano, riuscii in qualche modo a chiedergli se sentiva male, e se voleva che lo aiutassi ad alzare il volume dell’apparecchio. «No, semmai funziona troppo bene», mi rispose con quel mali-zioso candore degno di Totò che a volte tirava fuori, «sto cercando di abbassarlo!». Anche le lodi e i riconoscimenti avevano il potere, se protratti oltre una certa soglia di sopportazione, di scocciarlo.
Credo che La Capria avesse realizzato, nella forma della sua vita come nel ritmo ammaliante della sua prosa, un’idea antichissima di sapienza, che ricorre nel tempo a intervalli imprevedibili. A volte mi faceva venire in mente un saggio taoista, capace di tenere in bilico due verità contrarie nella stessa frase; ma c’era in lui anche qualcosa che lo accomunava ai grandi viandanti romantici, inebriati dalla bellezza di un fiore, di un insetto, di un ruscello fino al punto di riconoscere in quel minimo frammento di realtà la musica del Tutto. E non c’era cosa che scrivesse che non fosse la diretta conseguenza di questo modo così autentico, così privo di impalcature intellettuali, di stare al mondo.
Ne fanno fede gli splendidi articoli che per tanti anni ha scritto per questo giornale: in La Capria non ha senso distinguere lavori «maggiori» e «minori», perché a contare, nella sua scrittura, è sempre e soltanto il particolarissimo, irripetibile legame tra l’occasione fornita dal mondo e il suo riflesso interiore. È in quel rapporto tra lo stimolo e l’elaborazione poetica che per La Capria si gioca la partita della forma, dello stile: che è pur sempre la più importante che a un artista tocca giocare.
Tante volte mi è stato chiesto da dove cominciare a conoscere l’opera di La Capria. Ho sempre consigliato di procedere a ritroso, tenendo da parte Ferito a morte, il capolavoro del 1961 pubblicato sulla soglia dei quarant’anni, invero congedo dalla gioventù fatta di tante «belle giornate» ma anche di letture intense e prolungate della grande tradizione modernista, da Joyce a Faulkner passando per l’amatissimo Eliot, di cui La Capria tradusse i Quartetti. Io arriverei a Ferito a morte, questo capolavoro che riesce a sorprendere ad ogni rilettura, come se avesse il potere di nascondere sempre qualcosa di nuovo, facendo il giro largo, vale a dire dopo aver goduto i libri più significativi della maturità (come L’armonia perduta del 1986) e della vecchiaia — primo fra tutti la struggente Amorosa inchiesta (2006), bilancio di una vita considerata dal punto di vista dei rimpianti e delle consapevolezze tardive: troppo spesso ci si vanta in modo insensato di non avere rimpianti, come se non fossero anche loro una linfa dell’esistenza). E non va dimenticata l’alta gioielleria dei racconti brevi, organizzati in raccolte praticamente perfette come Fiori giapponesi (1978) e La neve del Vesuvio (1988).
Generosità
Riusciva a voler bene anche agli imperturbabili rompiscatole che assillano sempre gli scrittori
con manoscritti e idee bizzarre
Come il suo grande amico Goffredo Parise, La Capria ha impresso forti discontinuità alla sua maniera di scrivere, tentando strade nuove quando in lui si faceva forte, anche in maniera dolorosa, il senso dell’inadeguatezza del linguaggio alla multiforme, labirintica ricchezza della percezione e del sentimento. Ogni libro, mi disse una volta, deve contenere qualcosa dell’energia, della fame di futuro, della necessità di un esordio. Non solo: nella sua lunga vita, La Capria ha sperimentato sia la pienezza del successo, sia la sensazione di essere stato dimenticato (proprio su queste pagine, raccontò l’angoscia di uno scrittore che non trova le sue opere in una grande libreria del centro). Ma è meglio affrontare periodi di latenza e di incertezza che ripetere ciò che è piaciuto al pubblico, o alla critica, come se non fossimo capaci di muoverci da lì.
Dopo il successo di Ferito a morte, coronato dal Premio Strega, La Capria attraversò un lunghissimo periodo di crisi. Valentino Bompiani lo supplicava di dargli un nuovo libro, gli offriva soldi, ma lui non si sentiva più in grado di fare nulla di buono. La bibliografia parla chiaro: il libro successivo al capolavoro, Amore e psiche, uscì nel 1973, vale a dire ben dodici anni dopo! E se La Capria non riempì quel vuoto con parole inutili, è perché, da vero artista, sapeva che l’importante non è usare la propria voce, ma cercarla, non smettere mai di cercarla. E la cosa che più gli dava gioia, considerando la propria vicenda, è il fatto che, ad ogni svolta del suo cammino, puntualmente si presentava una nuova generazione di critici e di lettori, pronti a ripercorrere le sue pagine come se fossero state scritte apposta per loro.
In questo mondo non c’è nulla su cui scommettere, ma sono convinto che questa capacità che hanno i libri di La Capria di durare nel tempo, di suscitare nuove adesioni, sia tutt’altro che finita con la sua morte. Troppo prezioso è quel sodalizio di libertà e necessità che si respira nei suoi li-bri, troppo illuminanti le sue storie fatte di niente, troppo toccante la compassione riversata su uomini e animali per immaginare facilmente un sostituto.
Che si sopravviva in ciò che si è scritto, il più delle volte è una semplice petizione di principio, priva di riscontri. Ma il luogo comune è singolarmente vero e credibile quando si parla di La Capria, perché ciò che ha scritto è stato esattamente il suo modo di collocarsi nello spazio, nel tempo, fra i suoi simili. È questo il tipo di pensieri con i quali tento di ammansire il mio dolore, di farmene una ragione.
Un uomo giusto com’è stato La Capria si è meritato una morte simile alla vita meravigliosa che ha vissuto. Tra poche settimane, il 3 ottobre, avrebbe compiuto cento anni. Negli ultimi tempi, gliene parlavamo come di un traguardo ormai prossimo, quasi visibile. Ma quando si toccava l’argomento, non mi sembrava entusiasta. Come se ci avesse intravisto qualcosa di antipatico, in quella cifra tonda. E soprattutto, come se in lui fosse rimasto inalterato, fino all’ultimo respiro, quello che forse è il più profondo, il più saggio insegnamento dei suoi libri: perché si realizzi la pienezza dell’esistenza, è necessario che a quell’esistenza manchi qualcosa, che la misura non venga mai colmata fino all’orlo. Si addicono perfettamente a La Capria quei due famosi versi di Hofmannsthal in cui sembra riassumersi tutta la saggezza umana: «con lieve cuore, con lievi mani/ la vita prendere, la vita lasciare».