Ma che bel Castello per Pistoletto
10 Dicembre 2023Un pensiero filosofico immerso nella realtà
10 Dicembre 2023Rana Gorgani è una danzatrice di origini curde e iraniane cresciuta in Francia che da vent’anni si dedica alla pratica spirituale sufi e alla danza dei dervisci rotanti – che insegna in tutto il mondo – unica donna a praticarla in pubblico. Ad Ancona, per il Festival di arte in movimento Cinematica nel 2023 sottotitolato De Anima, ha portato lo spettacolo «Dialogues avec Shams» ideato da Matthieu Hocquemiller, coreografo oltre che ballerino e acrobata.
La derviscia rotante fa una cosa da uomo in panni maschili, la gonna a teli che prima di cominciare il tour è chiusa come un paio d’ali ma poi si libra, il cappello che dopo oltre metà performance (Rana gira ininterrottamente quarantacinque minuti) toglie con un movimento del capo liberando una chioma che sembra cosa viva. «Non è un gesto di rivendicazione femminista» spiega l’artista, ma è fortissimo; soprattutto perché la danza di Rana Gorgani (che sin dal nome richiama il moto di un mulinello d’acqua) è composta, restituisce il senso della grande disciplina richiesta per esercitarla, l’autogoverno necessario a mantenersi centrati, e quei capelli che irrompono nella coreografia sono un controcanto al gioco preciso e ai gesti puliti delle braccia e delle mani, rivolte ora verso la terra ora al cielo, con la grazia studiata delle figure del Thai Chi. Ma i paragoni con altre movenze o coreografie, anche sacre, non sono calzanti. L’assolo sufi è unico, ribadisce Rana, che ha praticato molte danze e studiato Antropologia della Danza ed Etnomusicologia. Di certo il tour del derviscio o della derviscia non è la rotazione di una menade, o di danze tribali che consentono di arrivare altrove andando fuori di sé. La sensazione confermata dalle parole di Rana Gorgani è che si danza per trovare un punto fermo, un posto nel mondo.
Non c’è incontro con un Dio nella conversazione con la danzatrice, piuttosto con l’Io, c’è la ricerca strenua della propria identità infine rinvenuta nel gesto creativo tanto a lungo appassionatamente coltivato; e anche se la performance è concepita come un dialogo muto, sovraimpresso a video, tra l’artista e il mistico errante del XIII secolo Shams, figura chiave del sufismo, quello che resta è la parabola biografica di una ragazza, che a lungo non si è sentita francese né iraniana, scambiata per uomo, per via del costume e dell’esclusività maschile del tour. Un essere umano, Rana, che sembra trovare quiete alla fatica di esistere, impresa particolarmente ardua oggi per le donne iraniane e le donne e gli uomini di fede musulmana, nella zona di rispetto (di sé) e di unione con il mondo tracciata dal proprio corpo che ruota, come la Terra, in senso antiorario. Eppure quel moto centrifugo, che annulla differenze e connette l’esterno all’interno, è legato a una storia e un’origine precisa e non casuale, una vicenda politica e civile di cui oggi sappiamo attraverso le cronache nere sulle morti, tra le altre, di Masha Amini, i messaggi dell’attivista Premio Nobel per la Pace Narges Mohammadi, che schiudono le porte di un mondo che l’Occidente ha imparato a conoscere anche sui lavori di Marjane Satrapi e Azar Nafisi. Impossibile vedendola danzare non pensare ai capelli delle donne iraniane tagliati in segno di lutto e solidarietà: i suoi, elastici e ribelli come diceva Baudelaire, rintoccano come campane suonate a vivo.
I colori dei tuoi abiti hanno un significato?
La veste della danza sufi è tradizionalmente bianca, lo stesso colore usato nei sudari che avvolgono le salme, a significare una morte mistica, una dismissione dell’ego e del corpo. Da alcuni anni ho introdotto anche altri colori, nel sufismo i colori hanno poteri specifici.
Uso il rosso, il colore emblematico della rosa, il fiore che rimanda al percorso umano per arrivare alla bellezza e alla perfezione di una corolla, di una forma di amore che è quel che resta e che conta nel bilancio di una esistenza, attraverso un sentiero spesso irto di spine. Uso anche il nero, non per lutto ma perché è il non colore che li somma tutti, e le tenebre sono lo sfondo necessario alla luce, esistono perché essa possa manifestarsi.
Danzi per grande parte della perfrmance con il copricapo derviscio, che dovrebbe evocare ieraticita’. poi te ne disfi e i capelli richiamano una dimensione molto piu’ terrena
Il cappello dei dervisci è come la stele di una lapide, rappresenta la consapevolezza di iniziare un percorso che porta a scomparire e al termine del quale non esiste l’ Io, solo Dio, lo indossano prevalentemente i sufi Mevlevîye. Un’altra funzione dell’oggetto è quella di catalizzare energia.
Nel mio gesto di toglierlo c’è una componente di coreografia ma anche la volontà di rimarcare il fatto che pur provenendo da una tradizione non è più necessario poi avere simboli che segnalino un’appartenenza. Vengo dal sufismo, ho speso, spendo la vita nel farlo conoscere con le mie masterclass ma in ultima istanza quello che conta è mostrarmi per quello che sono io senza bisogno di insegne. Non devo dichiarare di appartenere a un ramo del sufismo, all’Occidente o all’Oriente: il punto non è essere derviscia ma dirmi l’essere umano che sono. Il cappello, come altri segni esteriori, è una bandiera. Ovviamente i capelli liberi di una donna iraniana dicono anche qualcos’altro, ma a prescindere da questo, è un percorso di liberazione valido per ogni donna o uomo. Tutti cerchiamo un modo di essere e ci sentiamo persi, allora ci aiuta afferrare qualcosa, anche un simbolo esteriore, aiuta: ma a un certo punto bisogna lasciarlo andare.
Penso a Narges Mohammadi, ha il Nobel ed è in prigione, un giorno sarà libera spero, e scorderà il premio. Per il cappello è lo stesso: quando te ne liberi raggiungi la libertà; intendiamoci non voglio dire che il nostro copricapo sia una prigione, è il segno di una tradizione antica che amo rispetto e divulgo. Quando danzo indossandolo lo sento, lo avverto sulla mia testa e ricordo di stare intraprendendo il sentiero d’amore, ma a un certo punto quel sentimento lo interiorizzo e il simbolo non serve più: allora posso davvero essere libera e partecipe del tutto e avere tutto l’universo in me. L’arte mi permette così di essere nella spiritualità.
La danza sufi ha punti di contatto con altre danze sacre?
No, non è paragonabile a nessun’altra. Ho praticato diverse danze, anche non sacre, persiane e africane. Questa danza non è assimilabile neanche alla meditazione, come a volte avviene. La cifra di questa pratica è la non separazione, il suo essere il luogo, e il modo, in cui il molteplice diventa uno. È una danza in cui hai stabilità e allo stesso tempo ti lasci andare.
Come viene accolta la tua esperienza artistica in Iran? ti sei mai esibita nel tuo paese di origine?
Dall’Iran, anche dalle persone più legate alla tradizione ricevo attestazione di rispetto e ammirazione, accolgono anche il mio essere artista ma purtroppo non posso esibirmi là, il rischio di finire in carcere è troppo alto. È curioso. A volte in Occidente vengo «accusata» di essere troppo legata alla religione, sono etichettata da qualcuno, specie in questa fase storica come si può immaginare; un mio spettacolo pare possa essere annullato perché viene stabilita una relazione tra la mia performance e quello che accade in Medio Oriente. Eppure non parlo mai di religione, non menziono il Corano o i profeti. Se devo farvi riferimento, ad esempio nei miei seminari, dico «testi sacri». In Occidente sono percepita a volte come troppo islamica, ma per alcuni nel mio Paese di provenienza non sono affatto una buona musulmana.
Nell’insegnamento della tua arte che posto occupa la componente spirituale?
Negli ultimi dieci anni ho insegnato questa danza a centinaia di persone, chi la pratica oggi è sicuramente stato mio allievo, ho alunni anche in Giappone, non so se sono una brava artista ma so di essere una buona insegnante, e quello che faccio più che insegnare a danzare è insegnare a non avere paura. L’arte è sempre spirituale, tutta, e attraverso la spiritualità si raggiungono saggezza e tranquillità. Non credo bisogna mai giudicare cosa sia arte e cosa non lo sia, definire quale sia buona e quale no. Né giudicare chi trova bello e artistico qualcosa che noi non percepiamo come tale. Tempo fa mi è capitato di vedere un documentario sulla musica in Finlandia dove è molto amato l’hard rock, cosa che non sospettavo. Beh, ho trovato il movimento dei musicisti heavy metal che scuotono la testa avanti e indietro, l’headbanging, non molto diverso da quello dei sufi in preghiera.