Non c’è solo Michelotti
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L’editoriale
Il potere e il rendiconto
Il fascismo incalza il post fascismo. Ieri, anniversario del 16 ottobre 1943, Giorgia Meloni ha dovuto affrontare il rastrellamento di 79 anni fa al Ghetto di Roma, una delle pagine più infami e inumane della nostra storia. Lo ha fatto con parole nette che non si prestano ad equivoci, parlando di “giornata tragica, buia e insanabile, con la vile e disumana deportazione di ebrei romani per mano della furia nazifascista: una memoria di tutti gli italiani, anticorpo contro l’indifferenza e l’odio, per continuare a combattere in ogni sua forma l’antisemitismo”. Una presa di posizione importante, che conferma la condanna esplicita già pronunciata dalla presidente di Fratelli d’Italia su un elemento capitale della dittatura come le leggi razziali. Meloni non è ancora premier, dunque non aveva uno specifico obbligo istituzionale a parlare dell’anniversario: lo ha fatto perché questi sono i giorni della sua trasformazione da capo di un partito a capo di un governo, che deve parlare a nome di un Paese e all’intero Paese. E perché ha compreso che prima di questa trasformazione i debiti vanno saldati, anche quelli con la Storia.
Nonostante l’opera incessante degli enzimi giornalistici e intellettuali per sciogliere nel nulla della banalizzazione i nodi culturali e politici che dal passato avviluppano il presente e il futuro di Fratelli d’Italia, non si riesce dunque ad archiviare la questione del rapporto dell’estrema destra italiana con il fascismo, che ostinatamente resta aperta per una ragione semplicissima: perché soltanto la candidata premier può risolverla con un giudizio definitivo, franco, esplicito davanti al Paese, cioè con un atto di responsabilità nei confronti della democrazia che si prepara a servire col giuramento sulla Costituzione davanti al Capo dello Stato. Non una condanna di singoli elementi universalmente disumani del ventennio, come fossero una deviazione per errore dalla rotta del fascismo, ma un’analisi compiuta sulla natura del fascismo e sul suo carattere costitutivo antitetico alla democrazia, che in Occidente ha la forma dei valori liberali.
Fino ad oggi la presidente di Fratelli d’Italia ha creduto di poter evitare questo rendiconto che è il fondamento di ogni patto democratico tra un governante e i cittadini, tutti, anche quelli che non lo hanno votato ma che alla pari coi supporter hanno il diritto di conoscere non solo i programmi e i pizzini dei leader che si apprestano aguidare il Paese, ma soprattutto il loro impianto culturale, i riferimenti storici, i richiami ideali. Questo vale sempre, ma in particolare in un Paese in cui tutti i partiti (ad eccezione della Lega, che però ha subito una mutazione genetica) sono nati dall’eruzione di Tangentopoli, dunque ogni radice che affonda nella storia e nella tradizione è stata tagliata. E naturalmente vale ancor più per un’aspirante premier che viene dal mondo del post o neo fascismo e che oggi ha tutto il diritto di compiere un cammino di revisione di quelle scelte, fatte quando comunque aveva già ampiamente raggiunto l’età della ragione: purché le as suma in proprio, spontaneamente e con parole sue, senza accontentarsi del playback di affermazioni altrui.
Il problema evidentemente è che l’estremismo di destra finora non ha sentito il bisogno di questo chiarimento conclusivo e totale, se non su questioni epocali come l’Olocausto e le leggi razziali, ritenendo con ogni probabilità che il voto della vittoria abbia implicitamente amnistiato il fascismo senza nemmeno il bisogno di gettarlo nella pattumiera della storia, come diceva Trotzkij ai suoi avversari politici, ma per un semplice scivolamento da un’identità all’altra, da un’epoca a una nuova era, da un’appartenenza a una tiepida discontinuità: nel beneplacito riverente dell’establishment, pronto come sempre a qualsiasi avventura, nell’incapacità cronica di coniugare gli interessi particolari legittimi con l’interesse generale. Non bisogna dimenticare che questa destra è ideologica nei valori, populista nel metodo. Nella migliore tradizione del populismo importato nel sistema da Silvio Berlusconi, il voto si ripresenta dunque nuovamente come una forma di unzione sacra che bypassa problemi, risolve eredità, cancella ambiguità e annulla ogni interrogativo. Non c’è più nulla da domandare perché non c’è niente da chiarire, la leader e il popolo si sono riconosciuti e congiunti nel suffragio, e il consenso chiude per cinque anni ogni partita.
Ci sono poi i facilitatori, in ritardo rispetto alla stessa Meloni, che soffocano come nostalgico al contrario ogni tentativo – minoritario – di riproporre la questione del fascismo, la preoccupazione europea, l’incertezza occidentale che non può essere risolta soltanto con la scelta atlantica, perché grazie al cielo l’Occidente non è una caserma ma una civiltà, dunque qualcosa che va benoltre la Nato. L’accusa è di guardare al passato, mentre è chiaro che in questo nodo stanno gli interrogativi sul domani dell’Italia: ma la risposta è che le bollette di oggi contano più dei manganelli di cento anni fa. Questo negazionismo preventivo non si accorge che paradossalmente riduce la destra a pura prassi – anzi, azione, per restare nei termini propri – come se non avesse una teoria del governo, ma fosse semplice amministrazione del comando. Ma con ogni evidenza non è così, e qui nasce il vero problema per Meloni, quello di conciliare il ruolo di statista occidentale con l’identità culturale di una destra estrema.
Il richiamo continuo alla Nazione invece che allo Stato, ad esempio, è tipico del populismo di destra pronto al “plebiscito quotidiano”, privilegiando la Nazione comeèthnos ,dunque un insieme cosciente di territorio, lingua, sangue, religione e tradizione, rispetto alla Nazione come
dèmos , cioè un popolo di cittadini uniti dagli stessi diritti e doveri garantiti e richiamati dal patto costituzionale. Da palazzo Chigi si parla certo alla Nazione, ma si governa il Paese. È il nazionalismo che spinge la Nazione a “conquistare lo Stato”, come dice Hannah Arendt, a mangiarselo svuotandolo come organizzazione di una società aperta, mentre la destra nutre il suo mito. La teoria della destra prepara dunque un cambiamento rilevante nel paesaggio culturale italiano.
Meloni, in cambio delle mani libere nei confronti dell’Europa, sembra aver privilegiato infatti la continuità nella politica di difesa e nella politica economica, e l’identità nella politica interna. Lo conferma la scelta dei presidenti delle due Camere all’insegna del radicalismo di destra, nostalgico l’uno, filorusso e nemico dei diritti liberali l’altro. Ci eravamo chiesti se la futura premier avrebbe costruito per la sua presa del potere un’immagine conservatrice o reazionaria: ora lo sappiamo, la reazione e il culto spento ma comunque eterno del fascismo si sono insediati al vertice del parlamento, aspettando il primo governo di una destra che viene dall’altro mondo per chiudere la stagione dell’antifascismo come cultura portante della repubblica, e cambiare la forma dello Stato e la sostanza della Costituzione con il presidenzialismo.
Questo ci attende. E mentre ci interroghiamo sull’identità di Giorgia Meloni, non ci accorgiamo che sta cambiando l’identità della nostra repubblica.