l’intervento
Liliana Segre
Sono molto vecchia, ma dentro di me non potrei mai essere diversa da quella bambina milanese che faceva, anzi, che avrebbe dovuto fare la terza elementare e che per la sola colpa di essere nata veniva espulsa di colpo. Fu difficilissimo accettare di andare via. Poche bambine, come me, erano nella stessa situazione e non posso mai dimenticare l’indifferenza – parola che ho voluto fortemente all’ingresso di questo Memoriale – con cui la popolazione di allora, salvo pochi eletti, reagì alle leggi razziali fasciste. Mi ricordo quella tavola apparecchiata, semplicissima, della mia dolce famiglia che cercava di spiegare a una bambina, felice di andare a scuola, che non aveva fatto niente, che era una qualunque scolara. Forse anche un po’ mediocre, ma certo non meritevole di essere esclusa. Perché spiegare a un bambino è sempre difficilissimo: sembra, sul momento, non capire, ma poi gli resta addosso tutta la vita. Era il 1938, siamo nel 2024; eppure, quel momento in cui mi venne detto: «Non potrai andare più a scuola perché sei ebrea» resta per sempre e ritorna oggi come allora con la stessa impossibilità di capire. Certe volte penso di aver vissuto invano, visto che da 30 anni, da quando sono stata in grado di raccontare, vado nelle scuole per testimoniare quello che mi è successo.
Sentirmi dire a quasi 94 anni: «Stai attenta, stai a casa. Perché fai la tua vita normale? Non uscire». Ma io sono attiva, mi piace vivere. Mi piace vedere le mie amiche e i miei amici, ho tante passioni. E dovrei stare a casa ad aspettare che qualcuno venga ad ammazzarmi? No! Ricevo minacce pazzesche che ho ignorato per anni. All’inizio mi sembrava la cosa migliore, anzi: a dirla tutta lo penso anche adesso. Ma oggi sono una mamma, una nonna e mi preoccupo di questi odiatori, che odiano personaggi noti per le ragioni più strane, perché hanno dei problemi gravissimi. Più degli odiati, andrebbero protetti gli odiatori, curati da delle équipe di medici. A me augurano la morte e io rispondo che non dovranno aspettare tanto, visto che ho 94 anni. Ma uno che augura a me la morte, è lui che dovrebbe essere curato perché è malato. Mi ricordo quando feci il vaccino anti Covid. Mi era stato chiesto di farlo in pubblico e mi è stato detto e scritto di tutto: come se fossi un untore. Un gentile signore mi scrisse che, siccome sicuramente avevo le azioni della Pfizer, stavo facendo quel vaccino così avrebbe venduto di più. Ho scoperto allora che c’era una casa farmaceutica che si chiama Pfizer.
In quanto ebrea, ho studiato la storia millenaria dietro di me e anche se non mi aspettavo questa ondata di antisemitismo, concordo con il rabbino Arbib che dice che siamo stati sempre odiati, perseguitati, siamo stati schiavi in Egitto. Troppe storie ci sarebbero da raccontare. Ma non si sa se per una forza divina, umana, etica o filosofica, sia pure in una minoranza, nonostante la Shoah e nonostante questo mondo ci accusi di qualsiasi cosa, nell’indifferenza generale questo popolo continua a esistere. E speriamo sia così anche dopo questa ondata spaventosa di odio, anche nei confronti degli ebrei italiani che non c’entrano niente con le decisioni politiche di Israele, che possono anche non condividerle. Eppure siamo accusati di quello che noi per primi non vorremmo vedere e sentire.
Questo luogo (il Memoriale della Shoah, ndr) che andrebbe visitato non solo dalle scuole, non è conosciuto da molti milanesi che scelgono di non venire o non sanno neanche che esiste. Questo luogo, importantissimo per l’Italia, era abbandonato dopo la guerra. C’è stata addirittura una discoteca. Poi la Comunità di Sant’Egidio lo scoprì, in un disuso vergognoso per la città di Milano. Da qui sono passate persone che dopo essere state imprigionate, perseguitate, tra calci pugni e violenze da parte dei nazisti – ma anche dei fascisti perché gli italiani non erano tutti “brava gente” – venivano caricate su quei treni per viaggi che duravano una settimana. E allora, dopo tutto quello, oggi dovrei avere paura di uscire? Ho visto il peggio.
Nel ‘45, quei pochi che tornarono dai campi di sterminio, non solo non hanno parlato perché non ne avevano la forza ma perché non c’era nessuno che voleva ascoltarli. E questo valeva anche per chi tornava dai campi di concentramento come gli Imi (Internati militari italiani, ndr). Mio marito era un Imi e nessuno voleva toccare l’argomento, nessuno voleva ascoltare i racconti di fame, guerra e freddo di chi tornava. Esperienze come quella di mio marito, deportato in inverno in Germania con le divise estive che si usavano in Grecia. Quando si è trattato di me, cercavano di distrarmi dal raccontare. Così ho pensato che avessero ragione loro, che non dovevo costringere nessuno ad ascoltare la mia storia. E così ho taciuto. E non me ne sono mai pentita. Ci è voluto un grande amore intorno a me per riuscire a sbloccare quel silenzio. Ho avuto una vita molto semplice, piccolo borghese, finché non ho avuto l’impulso di diventare una testimone. Il che non mi impediva di continuare a lavorare vendendo la tela in una piccola ditta. Poi, il presidente Mattarella – probabilmente dopo una notte di incubi – ha deciso di farmi senatrice a vita. Da lì la mia vita è cambiata. Sono diventata una persona nota e odiata. Ma anche, per fortuna, amata. —
Testo raccolto da Francesca Del Vecchio