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5 Settembre 2023Economia e partiti
di Federico Fubini
Già dalla primavera scorsa le famiglie con figli adolescenti in Italia hanno ridotto le quantità di acquisti alimentari del 12% rispetto a un anno fa, anche se i loro consumi in euro risultano cresciuti. Per essere precisi, hanno tagliato i volumi della spesa proprio perché la corsa dei prezzi ha reso tutto più caro. Per il complesso delle famiglie in Italia, alla primavera di quest’anno le quantità di acquisti di frutta erano scese del 6%, quelle di oli e grassi vegetali del 19%. E così via.
Se poi si guarda a un lato diverso dell’attività economica, il commercio internazionale, si avvertono altri scricchiolii. Nella prima metà dell’anno l’export della Germania verso la Cina — un architrave della globalizzazione — è sceso quasi del 9%. E sarà un caso, ma a giugno anche l’export dell’Italia verso la Germania ha iniziato a calare: malgrado l’aumento dei prezzi, fatturiamo meno dell’anno scorso perché l’industria tedesca ha bisogno di meno componenti, spedendo essa stessa meno auto e meno macchinari ai suoi grandi clienti in Asia.
In sostanza, non ci incamminiamo esattamente verso un’età dell’oro. L’idea non rassicura, ma perlomeno potrebbe aiutare il ceto politico italiano a inquadrare meglio cos’è l’economia. E cosa non è. Non è la scena per provare qualche gioco di prestigio e soffiare un pugno di voti all’alleato-concorrente di turno, per esempio.
Non è l’ancella delle mire di potere di questo o di quello. Non è uno strumento per praticare forme più o meno coperte o scoperte di clientelismo di partito. L’economia è il futuro dei nostri figli. Ed è un meccanismo fragile, pieno di effetti domino, dove i contraccolpi sono tanto più duri quanto più fragile, appunto, è il sistema. Come ora.
Tutto questo tra breve troverà una forma quando il governo sarà chiamato a proporre la prima legge di bilancio, allo stesso tempo, veramente sua e veramente sottoposta a dei vincoli: cioè allo scrutinio del mercato, dei creditori della Repubblica italiana. Eppure, a giudicare dal dibattito estivo, non si direbbe che i partiti di maggioranza si siano concentrati molto su cos’è l’economia e cosa non è. In troppi vedono ancora il bilancio dello Stato come un puro e semplice strumento di consenso con un orizzonte, al massimo, di qualche mese. Assistiamo così alla solita insorgenza di idee e richieste di ogni tipo: in pensione prima, oppure al lavoro sì ma tassati tutti «piatti» al 15%, fino a centomila euro per gli autonomi o sui redditi aggiuntivi per i dipendenti; e via sognando.
Il test della realtà arriverà presto ed è importante tenere conto che la realtà non è rappresentata da Bruxelles, brutta e cattiva. Il punto non sono le regole imposte da qualcuno là fuori. Il punto è che i centoventi miliardi di bonus immobiliari, più i centocinquanta miliardi di debiti per gli investimenti legati al Piano nazionale di ripresa, mettono il debito italiano in una situazione particolare. Il flottante del debito — cioè il volume di nuova carta emessa dal Tesoro da piazzare presso i creditori — quest’anno aumenta di 120 miliardi circa, se si somma la copertura del fabbisogno ai titoli di Stato che la Banca centrale europea non assorbe più poiché ha smesso di ricomprarli alla scadenza. L’anno prossimo, sale di altri 130 miliardi circa.
Se si guardano le tendenze in atto, risulta persino probabile che in qualche momento di questa legislatura la Grecia farà il sorpasso. Lì il debito pubblico sta scendendo in fretta, qui fatichiamo a stabilizzarlo. Allora il Paese con il più alto debito pubblico nell’area euro diventeremo noi, come il mercato già anticipa chiedendo al governo di Roma interessi nettamente più alti che ad Atene.
Se questo è lo sfondo e se «il bilancio dello Stato è la coscienza di una nazione», come ricorda il ministro dell’Economia, allora evitare misure elettorali ed errori non basta. Quello è il minimo, poi però serve una visione su come far crescere l’Italia in modo che possa emergere dalla palude del debito. E anche qui è il caso di partire da ciò che sicuramente non serve. Non servono misure che chiudono i mercati e fanno fuggire gli investitori esteri, come sarebbe l’obbligare i fondi detentori a vendere sottocosto i crediti deteriorati o il permettere ad azionisti con quote ridotte di bloccare di fatto il governo di società quotate piccole e grandi (ci sono in questo senso curiosi emendamenti della maggioranza al disegno di legge sul mercato dei capitali). Quanto ai profitti eccessivi delle banche, lo stesso Giancarlo Giorgetti a Cernobbio ha osservato che devono esserci altri modi per far sì che smettano di abusare del loro potere ai danni delle piccole imprese: la tassa così come annunciata l’8 agosto non ha funzionato.
Funzionerebbe probabilmente avere più trasparenza e più concorrenza, meno lobby privilegiate che tengono i prezzi artificialmente alti, meno intrusione dello Stato e delle sue controllate ovunque, meno posizioni di rendita. Ma è un vasto programma in Italia, per la destra come per la sinistra. Nell’immediato della legge di bilancio, come da giuramento di Ippocrate, intanto asteniamoci dal recare danno e offesa.