l’analisi
Ayelet Gundar-Goshen
1. La neonata è rimasta chiusa per venti minuti nel ripostiglio prima che sua madre Sheila (nome di fantasia) si rendesse conto che rischiava di morire asfissiata. La mattina del 7 ottobre, Sheila ha visto i filmati delle aggressioni dei terroristi di Hamas a donne e bambini di un kibbutz nei dintorni di casa sua ad Ashkelon. Sapeva che i terroristi distavano soltanto pochi minuti di macchina. Quando ha sentito suonare le sirene, ha immaginato che fossero arrivati. La neonata aveva appena finito di mangiare e dormiva pacificamente, così Sheila l’ha sistemata nel ripostiglio e ha chiuso la porta a chiave. Ha preso un coltello in cucina e si è seduta ad aspettarli. Alcune settimane dopo, quando è arrivata nel reparto di psicoterapia dove ci prendiamo cura delle persone traumatizzate, Sheila ha descritto vari sintomi, il più predominante dei quali era il senso di colpa. “Per poco non ho fatto morire mia figlia” mi ha detto. “Come potrò mai stare di nuovo da sola con lei?”
2. Il criterio di riferimento per una diagnosi medica di disturbo post-traumatico da stress è che il paziente abbia vissuto in prima persona un evento traumatico potenzialmente mortale o vi abbia assistito. Il 7 ottobre abbiamo scoperto che tale criterio è sbagliato: non è necessario aver assistito all’evento di persona. È sufficiente seguire l’avvenimento nei notiziari e sapere di poterne essere coinvolti nell’immediato futuro. Quel sabato mattina, quando la notizia di una carneficina in corso per mano di Hamas ha iniziato a circolare, gli israeliani sono andati online alla ricerca di maggiori informazioni. Non hanno compreso che le scene alle quali avrebbero assistito sarebbero state radioattive. A distanza di un anno, coloro che hanno seguito la copertura del massacro soffrono ancora dei sintomi del trauma: difficoltà a dormire, incubi, flashback. Questo tipo di debilitazione non si limita alla guerra. Perfino durante le calamità naturali, essere esposti in modo massiccio alla copertura mediatica e ai post sui social media può provocare effetti simili, incrementando il numero delle vittime.
3. Il 7 ottobre, cinquantacinque abitanti del Kibbutz Nir Oz sono stati massacrati dai terroristi di Hamas. Un residente su quattro di questa piccola comunità nella parte meridionale di Israele è stato ucciso o preso in ostaggio. In un primo momento Noya Dan, una bambina autistica, è stata inserita nell’elenco delle persone scomparse e una sua foto, che la ritrae vestita da Harry Potter, è circolata in tutto il mondo. Il cadavere di Noya, poi, è stato trovato con quello della nonna accanto alla recinzione al confine. I terroristi hanno portato lì nonna e nipote e le hanno ammazzate. I Siman Tov – Johnny, Tamar, le loro bimbe Arbel e Shahar di cinque anni e il piccolo Omer di due – sono stati trucidati a casa loro. I terroristi hanno appiccato il fuoco all’abitazione con l’intera famiglia dentro. In un kibbutz delle vicinanze, i bambini Idan si sono nascosti in uno sgabuzzino mentre i loro genitori venivano ammazzati a colpi di arma da fuoco. La loro sorellina è stata rapita. Chen Almog-Goldstein ha assistito alla morte della figlia maggiore Yam, uccisa con un colpo d’arma da fuoco alla testa da distanza ravvicinata, e poi è stata trascinata via e portata a Gaza con gli altri tre figli.
4. Lo Yam Suf Hotel di Eilat, sulle sponde del Mar Rosso, è un albergo di settanta camere. Gli abitanti di Nir Oz sopravvissuti alla strage sono stati evacuati lì, direttamente dal massacro. Nella lobby dell’albergo, dove di solito si radunano gli appassionati di immersioni, i sopravvissuti hanno atteso notizie dei loro cari. Sono andata in quell’albergo nell’ambito della missione di intervento di una delegazione dell’ospedale psichiatrico presso il quale lavoro, per fornire assistenza e sostegno psicologico e cercare di impedire la fase post-traumatica. In genere, la prima cosa che si dice alle vittime di un trauma è questa: “È tutto finito, sei al sicuro”. Per i membri della comunità di Nir Oz, però, non era finita. Con molti loro amici del kibbutz trattenuti in ostaggio a Gaza, il 7 ottobre è stato soltanto l’inizio del calvario. È trascorso un anno e non è ancora finita.
5. Centomila persone sfollate nel Paese. L’8 ottobre, il giorno successivo all’attacco a sorpresa di Hamas al confine meridionale di Israele, la milizia sciita estremista Hezbollah ha iniziato a sparare razzi dal Libano contro le comunità del confine settentrionale di Israele. Più di sessantunomila israeliani hanno dovuto abbandonare le loro case e molti sfollati hanno assistito alla loro distruzione nei telegiornali. In un primo tempo, il governo ha evacuato soltanto chi abitava vicino al confine, ma molti residenti di altre comunità più distanti non hanno atteso l’ordine formale di evacuazione. Non si fidano di questo governo. Noa e Nir Baranes vivevano con i loro tre figli nel Kibbutz Ortal, sulle Alture del Golan, che non è stato evacuato. Noa e Nir sono stati uccisi da un missile di Hezbollah che ha centrato la loro auto mentre tornavano a casa dal lavoro.
6. “Sa che cosa voglio davvero?” mi ha chiesto Ido (nome di fantasia) alla nostra terza sessione terapeutica. “Voglio riuscire a tornare al mare.” Prima del 7 ottobre, mi racconta, ci andava quasi tutte le mattine. Me lo immagino, abbronzato e sorridente, che palleggia e gioca a calcio sulla sabbia. Nelle giornate più fresche, correva per alcuni chilometri prima di tuffarsi per una nuotata. In retrospettiva, mi dice, è stato proprio il fatto di essere un podista ad averlo salvato. Il 7 ottobre, l’abitudine a correre ha fatto la differenza tra la vita e la morte. Non tutti i suoi amici sono stati altrettanto fortunati. Tre mesi più tardi, Ido riesce a uscire di casa soltanto di rado. Dice che i terroristi potrebbero essere ovunque.
7. Uno dei sintomi sottovalutati del trauma collettivo è l’aumento dei reati riconducibili a problemi di salute mentale. Il giornale israeliano “Haaretz” ha riferito numerosi incidenti di questo tipo. Un giovane, il cui amico è stato ucciso al festival musicale Nova, ha temuto che i terroristi si stessero spingendo nel centro di Israele, ed è stato arrestato per aver rubato una pistola con la quale intendeva proteggere sé e la sua famiglia. Un altro giovane, che nell’ambito del suo servizio come riservista dell’esercito era stato mandato a identificare i corpi di alcune giovane vittime, è stato arrestato dopo aver aggredito con violenza la sua ragazza una volta tornato a casa. Nessuno di questi uomini aveva un passato violento. I loro scatti si sono verificati dopo essere stati esposti al trauma.
8. Arieh Itzik, un leggendario conducente di ambulanze del Kibbutz Nir Oz, portava in ospedale le donne del kibbutz che entravano in travaglio. Per anni, tutti i venerdì, si è prestato anche come volontario per accompagnare da Gaza a Israele i palestinesi che dovevano sottoporsi a cure mediche. Il 7 ottobre, a notte fonda, Arieh è andato di casa in casa per aiutare i primi soccorritori a riconoscere i corpi dei suoi amici. Il giorno seguente ha rilasciato un’intervista alla radio israeliana e ha lanciato agli abitanti di Gaza un appello: “Vi ho aiutato per anni, adesso tocca a voi: ridateci le persone che avete rapito”.
9. Vivian Silver, assassinata nel Kibbutz Be’eri, faceva parte del movimento pacifista israeliano. Due giorni prima dell’attacco di Hamas, ha preso parte a una manifestazione di protesta insieme ad altre donne palestinesi e israeliane chiedendo la fine dell’occupazione israeliana. Suo figlio Yonatan Zeigen era al telefono con lei quando si è nascosta dai terroristi in uno sgabuzzino. In un primo momento, Yonatan ha creduto che fosse stata rapita e portata a Gaza, ma in seguito si è saputo che i terroristi avevano appiccato il fuoco alla sua casa con lei all’interno. Alcune persone definivano Vivian Silver una “colona”. Ancora adesso, alcuni pensano che sia stata una vittima legittima nella lotta per porre fine all’occupazione israeliana.
10. “Ho corso per ore, i terroristi ci inseguivano. Eravamo come papere in un tirassegno” mi ha raccontato un sopravvissuto del Nova Festival. “Non è divertente fare festa accanto alla più grande prigione del mondo” è stata la reazione di un artista palestinese alla vista delle fotografie che ritraggono i giovani israeliani in fuga dal festival trasformato in carneficina. L’ottantasettenne Yaffa Adar è stata rapita dalla sua casa nel Kibbutz Nir Oz. Quel giorno suo nipote Tamir è stato assassinato e ha lasciato orfani due bambini. La foto di Yaffa, che sorride mentre i terroristi di Hamas la portano via nella Striscia di Gaza, è stata condivisa da un’attrice israelo-palestinese accompagnata dalla seguente didascalia: “In viaggio verso un buon pasto palestinese”.
11. Noa Argamani è comparsa in un videoclip mentre viene portata oltre il confine di Gaza e implora i terroristi di non ucciderla. Sui social media, alcuni hanno reagito postando l’emoticon di una risata.
12. I media israeliani mainstream non mostrano le immagini dei palestinesi uccisi a Gaza. Quelle che vediamo sugli schermi televisivi sono le immagini delle nostre sofferenze, riflesse di rimando a noi stessi. Alla radio sentiamo piangere le madri israeliane. I lamenti per la nostra terra sono così fragorosi da coprire, per troppi di noi, le voci provenienti dall’altro lato del confine: quelle delle madri palestinesi che piangono i loro figli.
13. Che cosa ci rende ciechi alle sofferenze altrui? Si tratta di una caratteristica necessaria, una che aiuta a vincere le guerre, oppure la capacità di riconoscere le sofferenze altrui potrebbe davvero porre fine al più presto alla guerra? Forse è l’insensibilità a permettere di andare avanti.
14. Da quando è iniziata la guerra, secondo un’indagine di Haaretz si sono suicidati dieci soldati e ufficiali israeliani. Alcuni si sono suicidati in battaglia. Non tutti riescono ad andare avanti.
15. Il dolore può essere accecante: non si riesce a vedere nient’altro che la propria sofferenza. Il dolore dei gazawi è invisibile agli occhi degli israeliani. Il dolore degli israeliani è invisibile agli occhi dei gazawi. I filopalestinesi si rifiutano di riconoscere o compatire le vite perse in Israele. I filoisraeliani si rifiutano di riconoscere la perdita di decine di migliaia di vite di civili in Palestina.
16. Il Primo ministro Benjamin Netanyahu si avvale dell’idea che, se “appoggi Israele”, devi appoggiare senza riserve il proseguimento della guerra. Io vivo e allevo i miei figli in Israele. Quando Israele è in pericolo, i miei figli sono in pericolo, eppure credo che questa guerra debba finire. Proprio per questo motivo mi indigno quando sento qualcuno nel mondo che chiede la fine della guerra senza esigere la restituzione degli ostaggi, senza insistere a sostegno della sicurezza e della dignità degli israeliani. La Palestina ha il diritto di esistere, proprio come Israele. In caso contrario, non potremo camminare insieme.
17. Seicentonovantamila shekel (163.269,53 euro): a tanto ammontano le tangenti che avrebbe intascato Netanyahu. Ha presentato al tribunale richiesta di rinvio del suo processo, così da poter essere libero di gestire la guerra. Il conflitto di interessi è evidente. Netanyahu, che deve far fronte a tre distinte accuse penali, ha tutti i buoni motivi del mondo per voler prolungare questa guerra all’infinito.
18. Trecentotrenta giorni: è il periodo in cui i sei ostaggi israeliani – Hersh, Eden, Carmel, Alex, Almog e Ori – sono sopravvissuti a Gaza prima di essere ammazzati in un cunicolo sotterraneo. Il giorno in cui è morta, Eden Yerushalmi, una giovane di Tel Aviv rapita al Nova Festival, pesava trentasei chili. Hamas ha affamato e trucidato questi giovani. Del loro sangue, però, sono sporche anche le mani di Netanyahu, che sta facendo di tutto per rimandare un accordo per la liberazione degli ostaggi.
19. Ci sono ancora 116 israeliani – alcuni morti e alcuni presumibilmente vivi – trattenuti prigionieri da Hamas a Gaza, ma molti israeliani hanno la sensazione che sia l’intero Paese a essere stato preso in ostaggio dalla coalizione più estremista della sua Storia. I membri del governo fanatico stanno cercando di distruggere ciò che resta della nostra democrazia. Siamo prigionieri di un’amministrazione che ci sta sacrificando a beneficio della sua deprecabile agenda. Il ministro della Sicurezza nazionale, Itamar Ben-Gvir, manda la polizia a soffocare con la violenza le manifestazioni di protesta contro il governo e un poliziotto è arrivato perfino a picchiare un medico intento a curare un manifestante ferito. Decine di dimostranti sono stati arrestati senza un valido motivo. Il tribunale li ha rimessi subito in libertà e i giudici hanno biasimato la polizia per averli arrestati, ma il danno è stato fatto: quando sentono parlare di violenze e di arresti, molte persone hanno paura a partecipare alle dimostrazioni. Poco tempo fa, Ben-Gvir ha promosso un poliziotto accusato di aver lanciato una bomba a mano in mezzo a una folla di contestatori. Il trauma non scaturisce soltanto dagli attacchi di Hamas. Arriva da dentro. Uno che lo ha appreso in prima persona è Gadi Kedem: il 7 ottobre sua figlia, suo genero e i suoi tre nipotini sono stati trucidati. Kedem è stato picchiato dai sostenitori di Netanyahu durante una manifestazione in cui si chiedeva un’intesa per la liberazione degli ostaggi.
20. . Un milione di persone in piazza: questo è il numero di persone necessario, secondo le stime dell’ex Primo ministro Ehud Barak, a rovesciare il governo più distruttivo nella Storia di Israele. E allora perché non scendono in strada? Prima di tutto, per paura. Paura esistenziale, paura fisica, paura che le sirene anti-raid possano suonare da un momento all’altro, paura di infiltrazioni di terroristi, paura di un attacco iraniano. La gente che ha paura non esce a manifestare, accumula scorte alimentari. Invece di scendere in piazza, la gente si aggira nelle corsie dei supermercati. Quando poi la paura diminuisce, si insinua il senso di colpa. Tutti noi conosciamo qualcuno che è stato richiamato come riservista. Gli israeliani sono riluttanti a uscire a protestare perché protestare sarebbe percepito come un gesto offensivo nei confronti dei soldati che rischiano le loro vite per salvare gli ostaggi e mantenerci al sicuro. Il senso di colpa, però, è deleterio, perché ci paralizza. Netanyahu sa che ampie fasce dell’opinione pubblica israeliana non si schiereranno apertamente contro di lui finché il Paese è in guerra, per un senso di solidarietà nazionale. Più spaventati e in colpa ci sentiamo, più è facile manipolarci.
21. Un giorno. Forse tra una settimana o tra due anni, ma un giorno accadrà: un giorno questa guerra finirà e a quel punto dovremo affrontare la domanda che di solito evitiamo di formulare: e adesso?
22. All’inizio di luglio, il movimento pacifista israeliano ha indetto un grande raduno a Tel Aviv. La parola “pace” ha suscitato imbarazzo in molti israeliani. Come possiamo cercare di riappacificarci con le persone che hanno fatto irruzione nei nostri kibbutz e nelle nostre città e hanno sterminato di proposito intere famiglie? Come possiamo anche solo parlare di accordi futuri mentre ancora adesso intorno a noi infuria la guerra? Eppure, l’alternativa è di gran lunga più spaventosa.
23. Due Stati. Coloro che parlano di uno Stato – un cosiddetto Stato binazionale – ignorano l’intensità dell’odio che c’è tra i due popoli. Coloro che affermano che dividere la terra in due Stati è impossibile dimenticano che, con sufficiente volontà e sufficiente creatività, ogni soluzione è possibile. Occorre, però, il riconoscimento reciproco delle sofferenze. Tutti devono aprire gli occhi nei confronti del trauma altrui.
24. Questo non è un gioco a somma zero. Queste non sono le Olimpiadi della sofferenza: possiamo lottare per il diritto dei palestinesi di avere un loro Stato e una loro vita, e al tempo stesso insistere per la vitalità dell’esistenza di Israele. Ci si può definire sionisti e al tempo stesso chiedere la fine delle terribili sofferenze dei gazawi. I leader estremisti di entrambe le parti continuano a ripetere che si deve scegliere tra il riconoscimento dei massacri del 7 ottobre e il riconoscimento delle sofferenze dei gazawi. Si tratta, invece, di una dicotomia falsa. C’è un’unica scelta che conta: l’umanità.
25. Frammenti. Quando la realtà va in frantumi, scrivere diventa pressoché impossibile. La quotidianità si dissolve in schegge. Come terapisti, chiediamo ai pazienti traumatizzati di scrivere qualcosa, di mettere insieme i pezzi e di unirli in un tutt’uno. Io lo faccio tutti i giorni in ospedale, dove curo i sopravvissuti del Nova Festival, ma anch’io incontro difficoltà a farlo. Ogni paragrafo che ho cercato di scrivere si è sbriciolato sotto i miei occhi. Alla fine di ogni frase c’è una crepa. Cerco di guardare attraverso le crepe, mi sforzo di dare loro dei nomi. E i loro nomi sono questo: dicotomie. Prendersi cura della sofferenza altrui cercando di cancellare la sofferenza di qualcun altro. Considerare la sofferenza come una giustificazione. Affrontare l’emozione a discapito di una fredda analisi della realtà. Una fredda analisi della realtà a spese di un riconoscimento autentico dell’orrendo significato della sofferenza.
26. Perché le cose cambino, occorre il dialogo. Ma quali sono le possibilità per israeliani e palestinesi di parlarsi, quando nemmeno i rispettivi sostenitori in Europa e negli Stati Uniti riescono a condurre un vero dibattito senza ricorrere alla demonizzazione?
27. Dieci chili di hummus al giorno. Segio Helman, proprietario del ristorante Bluebus vicino al confine settentrionale di Israele, ogni giorno va nel suo locale, situato in un centro commerciale abbandonato, e prepara hummus che nessuno acquisterà. In un’intervista a “Haaretz” ha spiegato che è questo a tenerlo in vita. Gli abitanti del kibbutz lì accanto sono stati evacuati. La gente ha paura a frequentare una zona nella quale, quando suonano le sirene, si hanno soltanto quindici secondi di tempo per mettersi in salvo in un bunker prima che cada un missile. Preparare l’hummus, però, è qualcosa che Sergio sa fare, e quindi lo fa. Si alza ogni mattina e dal suo kibbutz disabitato va in macchina al suo ristorante a preparare l’hummus. Così da non restare inoperoso a casa. Così da non perdere il senno. —
Traduzione di Anna Bissanti