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19 Marzo 2023di Andrea Laffranchi
Dave Gahan passeggia sulla spiaggia di Montauk. È l’inverno della pandemia e il cantante dei Depeche Mode è al riparo fra la privacy lussuosa delle ville e la natura incontaminata delle dune dell’Oceano Atlantico alla punta orientale degli Hamptons. «In quel periodo passavo molto tempo da solo. Facevo spesso lunghe camminate e meditavo sulla nostra vita in quel momento e su cosa sarebbe potuta diventare. Lì ho iniziato a pensare alla fine. Il quadro generale è che quello è un tema sul quale non abbiamo alcuna possibilità di scelta. Non è questo il senso della vita? Pensiamo di avere controllo su tutto, ma spesso non è così».
Un salto avanti nel tempo. Gahan, assieme alla band, è al Festival di Sanremo come superospite. C’è un disco nuovo dei Depeche Mode, il primo dopo la morte improvvisa del tastierista Andy Fletcher il 26 maggio dell’anno scorso, si chiama Memento Mori (esce venerdì 24 marzo), e quel senso di fine è filtrato nei testi, tra fantasmi, angeli morenti, oscurità e lacrime, e nelle atmosfere musicali delle nuove canzoni.
«I dischi migliori sono quelli che ti portano da qualche parte e anche questo album ti fa fare un viaggio, ti fa entrare da qualche parte e alla fine ti solleva in un’altra direzione. Si parte con My Cosmos Is Mine in cui c’è un personaggio esigente, del tipo “questo è il mio mondo”, che però alla fine si fa delle domande, dice “se c’è qualcosa di più grande in questo universo fatemi capire cosa posso fare”», racconta Dave, giubbino di pelle, maglietta dei NY Knicks in versione black e dita inanellate, nella suite di un hotel.
È fra le dune di Montauk che s’è detto per la prima volta «Memento Mori» (il motto latino che significa ricordati che devi morire)?
«L’idea del titolo è venuta a Martin (Gore, chitarrista e autore del gruppo, ndr) mentre iniziavamo a lavorare alle nuove canzoni. Ci stavamo scambiando dei demo, lui mi mandava una canzone e io la caricavo sul computer, mettevo le cuffie e mi chiudevo in bagno, dico sul serio, la cantavo nel telefono e gli rimandavo la voce».
Allora non è una leggenda del «music business» quella secondo cui i bagni avrebbero un’ottima acustica…
«Per me è così, ma l’ingegnere del suono che ha lavorato al disco non è d’accordo… Io in quelle registrazioni ci sento un suono strano che mi ricorda i primi dischi dei Joy Division».
Tornando al titolo…
«Quando ci siamo trovati a casa di Martin a Los Angeles con i produttori James Ford e Marta Salogni, lui mi ha detto dell’idea del titolo. Avevo sentito le sue canzoni, conoscevo quelle che avevo scritto io e mi sembrava che ci fosse un filo conduttore, come accade sempre nei dischi dei Depeche Mode. Quando mi ha spiegato che memento mori si traduce con “ricordati che devi morire” ho pensato che in fondo tutte le canzoni sembravano parlare di morte, del voler vivere la vita al massimo sapendo che ci sarà anche una fine. Sono brani sul “che ci facciamo qui?” — a volte intimi, a volte più terreni».
Il suo pensiero sulla morte è cambiato nel tempo?
«Per forza. Abbiamo perso Fletch durante la registrazione di questo disco. Lui è una persona con cui ho passato gran parte della mia vita adulta. E Martin ancora di più, credo si conoscessero da quando avevano 10 anni, una vita intera. Questa cosa che ci univa e che è stata rimossa completamente ha avuto un impatto. Avevamo già scritto tutte le canzoni, avevamo iniziato a registrare e Fletch si sarebbe unito a breve per sentire quello che avevamo fatto e per dire, come sempre, la sua: “Questo mi piace e questo no”; oppure: “Perché così tante cose sulla morte?”».
Non avete mai pensato di sciogliervi?
«Dopo la morte di Fletch, Martin e io eravamo d’accordo: continuiamo. Nel processo di lavorazione però mancava sempre qualcosa, c’era come un senso di perdita. È parte della vita, è duro da accettare, e io stesso non l’ho ancora accettato a fondo. Succede così quando muore qualcuno che ti è vicino… e in pandemia mi è capitato un paio di volte. Credo sia difficile per chiunque capire cosa significhi, è qualcosa di definitivo. La fine arriverà per tutti. È qualcosa che ci accomuna».
Chi ascolta le canzoni del nuovo disco si immaginerà che tutti questi riferimenti dark nei testi e nei suoni siano un modo per raccontare la vostra elaborazione del lutto…
«Decideranno loro… Ma le canzoni erano già scritte, il titolo c’era; poi è arrivata la terribile notizia. Ovvio che questo abbia influenzato la prosecuzione del lavoro, il mio modo di cantare i brani. E anche il fatto che lui non fosse in studio ha avuto un impatto. Più di quanto immaginassi. Mi è mancato. Ci sono cose che dai per scontate, cose piccole, ma è quando non ci sono più che ne senti la mancanza. E poi c’è la perdita per la sua famiglia, i figli e la moglie, i suoi amici. Alla fine in tutto questo sentimento tu metti alla prova la tua stessa mortalità. Tutto questo ci è arrivato addosso in modo molto intenso perché Fletch è stato preso che era giovane e così velocemente che nessuno se lo immaginava. È il mistero della vita».
Lei aveva già messo alla prova la sua mortalità in passato, è stato vicino alla fine più di una volta. Erano diversi i suoi pensieri allora?
«La morte di Fletch è stata inaspettata: noi non ci pensavamo e lui stesso non vedeva l’ora di venire in studio, di scegliere quegli occhiali da sole speciali che usava nei concerti e tutte le altre cose che faceva… Non si può paragonare tutto questo a quand’ero più giovane, a quand’ero a cavallo fra i venti e i trent’anni. Allora mi trovavo su un percorso differente. Quella era una mia scelta: avevo deciso di prendere dei rischi con cose che alla fine si è capito che non mi facevano bene ma che all’epoca mi sembravano buone. Le droghe cambiano il modo di sentirsi e io mi volevo sentire diverso. Le droghe ti fanno stare così, ma è qualcosa di temporaneo, non lo puoi fare per sempre. E l’ho scoperto abbastanza in fretta».
Il 23 marzo parte da Sacramento il vostro tour mondiale che passerà dall’Italia con tre date negli stadi: Roma (12 luglio), Milano (14) e Bologna (16). Siete rimasti lei e Martin. Si è già immaginato quando si girerà sul palco e non incrocerà lo sguardo di Fletch?
«Lo sto già facendo in prova… Durante le nostre performance live, sapevo che lui stava dietro la mia spalla sinistra. E ora non sarà più lì. Abbiamo pensato a una scenografia diversa: l’idea è che Martin e io stiamo davanti insieme. Abbiamo progettato un palco che ti spinge a guardare in questo modo, a vedere la forza mia e quella di Martin assieme. E poi ci saranno Peter Gorden e Christian Eigner che sono con noi da anni».
È cambiato anche il vostro rapporto. Com’è l’equlibrio a due invece che a tre?
«Rimanere in due ha forzato me e Martin a comunicare maggiormente insieme, piuttosto che tirare in direzioni opposte. Il risultato è anche un album più collaborativo».
Si ricorda l’ultima volta in cui ha visto il compagno scomparso?
«L’ultima volta è stata a dicembre 2021 alla presentazione del disco del mio progetto Imposter alla Westminster Hall di Londra. Prima dello show il mio manager mi stava facendo vedere le bellezze del Parlamento e da dietro una porticina è apparso all’improvviso Fletch… Ci siamo abbracciati e mi ha detto che arrivava dal pub dove aveva incontrato i fan. Abbiamo chiacchierato un po’ e da allora non l’ho più rivisto. Non ci siamo nemmeno sentiti».
E la prima? Era a Basildon, nell’Essex, da dove tutto è partito nel 1980?
«Me la ricordo benissimo, quella volta… Facevamo le prove in un buco dietro una chiesa che il prete ci lasciava usare in cambio di una piccola somma. Poi prendevamo il bus per tornare a casa. Ricordo di essere salito a bordo un giorno mentre Fletch e Vince (Clarke, il fondatore che lasciò il gruppo dopo il primo album, ndr) stavano discutendo. Forse Vince gli stava chiedendo conto dei soldi del bus che gli aveva prestato la sera prima, qualcosa del tipo “mi devi 5 penny…”. E questa cosa è andata avanti a lungo. Fletch era uno categorico, sapeva cosa gli andava e cosa no. Dall’altro lato era estroverso, gli piaceva essere quello che nel bar parla con tutti e che fa stare bene tutti. Gli piaceva anche discutere; abbiamo discusso tanto io e lui. Però è stato anche la persona che mi ha più sostenuto. Se mi capitava qualcosa mentre eravamo on the road, se perdevo la voce o altro, era il primo a telefonare “hey Dave, non ti preoccupare, si sistema tutto” (imita l’accento elegante dell’ex compagno, ndr). E quando litigavamo era il primo a chiamare per chiuderla lì».
In «My Favourite Stranger», uno dei brani del nuovo disco, scopriamo che l’estraneo del titolo siamo noi stessi che ci guardiamo allo specchio…
«Quella canzone parla dell’avere un ombra, qualcuno che ti segue in ogni istante e ti dice delle cose. Ascolti la bugia o la verità? Un brano divertente e un po’ rischioso. Con la musica hai bisogno di essere trasportato in posti diversi, a volte sono posti che hai davanti agli occhi, in altri casi sono spazi aperti. Questa è una canzone diretta, tipo i Suicide, Alan Vega, ha un’idea punk anni Settanta newyorchese».
Ma se siamo il nostro estraneo preferito possiamo anche essere il nostro «Personal Jesus», per citare una delle vostre hit più famose?
«Non sono una persona religiosa. Per nulla. Personal Jesus veniva da una cosa che Martin stava leggendo, un libro di Priscilla Presley in cui lei definiva Elvis il suo Gesù personale. Poi è stata interpretata in modi diversi, come capita alle canzoni buone che diventano quello che ti danno. E a me My Favourite Stranger e Personal Jesus provocano cose diverse».
«Soul With Me» è un brano dove lei canta di «pagine finali». Cosa vorrebbe ci fosse scritto sull’ultima pagina dei Depeche Mode?
«Per il momento so che abbiamo davanti a noi questo enorme lavoro del disco e un tour che andrà avanti, comprese una serie di date non ancora annunciate in Asia e Australia, fino alla primavera del 2024. Ecco quello che ho di fronte ora. Ma non mi fa bene lasciare andare i miei pensieri troppo avanti nel tempo, altrimenti mi allontano dal posto in cui sono. Lo so che è una cosa che capita a tutti, ma comunque cerco di vivere nel momento. Il mio amico Victor mi dice sempre: “Fai le cose e goditele come se fosse l’ultima volta che le fai”. Semplice, ma è una buona filosofia di vita».
A volte invece che vivere il presente ci perdiamo negli schermi dei nostri cellulari…
«Purtroppo sì… E io sono colpevole come lo siamo tutti. Capita che sei lì seduto e prendi in mano il telefonino, senza nemmeno sapere perché. Mi capita spesso. Così ho deciso di provare a lasciarlo a casa se esco a passeggiare. In questo modo cerco di capire a fondo quello che mi accade attorno. Sembra che stia diventando una cosa del passato questo atteggiamento, invece che guardare quello che accade nel piccolo mondo che è lo schermo di uno smartphone. E allora scopri bellezza, amore, ma anche crudeltà, odio, dolore, paura… Ecco a cosa penso quando faccio musica, o quando sono sul palco».