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8 Febbraio 2023I due Paesi africani, da cui il pontefice è appena rientrato, sono i teatri di guerre endemiche e di uno sfruttamento selvaggio delle risorse. Il ruolo dell’Occidente
“Non è una miniera da sfruttare o un suolo da saccheggiare”. Crediamo che queste parole del papa, pronunciate in occasione della sua visita in Africa appena conclusa, delineino bene la condizione ormai secolare di un continente affascinante quanto fragile, in cui l’Occidente ha giocato un ruolo catastrofico, anche eliminando fisicamente i leader politici che hanno tentato di riscattare la propria gente. Il pontefice si è recato in due dei Paesi più tormentati da guerre endemiche, oltre che da un selvaggio sfruttamento delle risorse: si tratta della Repubblica democratica del Congo e del Sud Sudan. Ancora una volta le ragioni retrostanti alle guerre, che vanno avanti senza soluzione di continuità, sono le dispute territoriali eterne, spesso legate alle maledette risorse energetiche. Oltre alla complicata questione dei confini – in questo caso tra Sudan e Sud Sudan, dove venerdì 3 febbraio si è recato il pontefice, seconda tappa dopo quella congolese (vedi qui).
La repubblica con capitale Juba, con una superficie doppia di quella italiana, si rese indipendente da Khartum, il 9 luglio 2011, attraverso un referendum vinto dagli indipendentisti con il 98,83% dei consensi. Un risultato che mise la parola fine a decenni di guerra, durante i quali fu inutilmente costituito un governo autonomo del Sudan del Sud. Tuttavia, a quasi dodici anni da quell’evento, i rapporti tra i due Paesi africani restano instabili. E a poco sono valsi i diversi accordi bilaterali siglati da entrambe le parti per controllare il lungo confine che li separa, e per ostacolare i traffici illegali e il passaggio di gruppi armati. Nel gennaio scorso, il tema è stato affrontato a Juba dal presidente del Consiglio sud-sudanese, Salva Kiir, con il presidente del Consiglio sovrano sudanese, generale Abdel Fattah Al-Burhan.
Malgrado la separazione, le economie dei due Paesi restano fortemente legate in numerosi settori. L’intesa prevede la presenza di truppe comuni al confine. “Il tempo dirà – dice Bruna Sironi, rappresentante nell’Africa orientale dell’associazione Mani Tese, oltre che collaboratrice del mensile dei padri comboniani “Nigrizia”– quanto gli impegni reciproci siano frutto di una reale preoccupazione per la stabilità del proprio Paese e dell’intera regione, o invece un messaggio in codice ai rispettivi movimenti di opposizione, o gruppi armati che agiscono su base locale o etnica, tollerati, se non addirittura sostenuti, oltre confine, in un gioco delle parti fin troppo comune lungo molte frontiere africane”.
Altri tentativi simili sono miseramente naufragati. Come nel 2012, quando Kiir aveva firmato un’analoga intesa con l’allora presidente Omar El-Bashir. Accordo che avrebbe dovuto permettere la ripresa dell’estrazione del petrolio fermata, all’inizio di quello stesso anno, per divergenze sulle royalty del greggio estratto in territorio sud-sudanese. “La disputa – sottolinea ancora l’attivista –aveva scatenato anche un breve ma pericoloso conflitto per i campi petroliferi di Heglig, sulla frontiera tra lo Stato sudanese del Sud Kordofan e quello sud-sudanese di Unity”. L’assegnazione di quei campi al Sudan non aveva convinto i vicini, delineando così un quadro potenzialmente pericoloso.
Al di là delle risorse petrolifere, c’è stata anche una componente strettamente politica che da sempre caratterizza queste “guerre a bassa intensità”. A cominciare da quella del 2011, scoppiata nel Sud Kordofan. Una guerra civile che vide contrapposti il governo di Khartum al Movimento popolare di liberazione del Sudan, sostenuto, secondo le autorità sudanesi, da Juba. Al punto che, nel 2013, il Sudan minacciò di bloccare il passaggio del petrolio sud-sudanese come ritorsione a questo sostegno. E gli esempi potrebbero continuare. Tra questi, il drammatico conflitto per l’assegnazione della zona petrolifera di Abyei al Sudan, terminato grazie al lavoro di una specifica commissione. A fare da sfondo a questa contesa, c’è stata la terribile guerra civile in Sud Sudan avviata nel 2013, a due anni dall’indipendenza, e terminata nel 2020 per acquisire il controllo del Paese. A scontrarsi, l’attuale vicepresidente Riek Machar, di etnia nuer,e il presidente Kiir Mayardit che lo aveva estromesso nel luglio 2013. Un conflitto che provocò 383mila morti, un milione e cinquecentomila profughi e due milioni e centomila sfollati. A rendere l’idea dell’assurdità di questa guerra, ricordiamo le parole dell’allora segretario generale dell’Onu, il sudcoreano BanKi-moon: “Qualunque siano i vostri disaccordi, essi non possono giustificare la violenza che distrugge la vostra giovane nazione”.
Violenza e povertà la fanno da padrone anche nella Repubblica democratica del Congo, dove Francesco ha iniziato il suo viaggio in Africa. Un gigante con quasi cento milioni di abitanti e con una superficie di oltre due milioni di chilometri quadrati, il cui presidente, dal 2019, è l’ex leader del partito d’opposizione Unione per la democrazia e il progresso sociale (Upps), Félix Antoine TshilomboTshisekedi, succeduto a Joseph Kabila del Partito del popolo per la ricostruzione e la democrazia (Pprd). La patria di Patrice Lumumba, patriota congolese assassinato il 17 gennaio 1961 su mandato della Cia, si prepara alle elezioni del 20 dicembre prossimo in un clima di grande instabilità politica, dietro la quale permangono drammatici problemi di carattere economico e sociale.
Il nodo principale riguarda il conflitto delle regioni del nordest. Secondo“Nigrizia” la campagna elettorale si gioca prevalentemente “sulla stabilizzazione delle tre province del nordest, ovvero l’Ituri, il Nord Kivu e il Sud Kivu. Le opposizioni sottolineano, a ragione, che il governo uscente ha fatto tante cose e tutte confuse; certamente nessuna decisiva per pacificare quei territori ricchi di minerali, ma insidiati da decine di gruppi armati e dalle grinfie degli Stati confinanti, come Ruanda, Uganda e Burundi”. Ancora una volta sono in ballo le straordinarie risorse di cui godrebbe (il condizionale è d’obbligo) il gigante centroafricano. Per rassicurare l’opinione pubblica, Tshisekedi ha comunicato alla stampa e alla popolazione la creazione della società mista Primera Gold Drc Sa, frutto di un accordo tra il Paese africano e gli Emirati arabi uniti, la quale si è posta l’obiettivo di produrre circa una tonnellata al mese di oro “certificato”, che sarà commercializzato attraverso gli Emirati.
Sempre secondo il periodico diretto dal missionario Giuseppe Cavallini, “a trarne beneficio dovrebbero essere anche i trentamila minatori artigianali, che sono già stati contattati e che potranno avere compensi regolari per il lavoro che svolgono. Si tenga conto – aggiunge la storica rivista comboniana – che le stime più accreditate dicono di venti tonnellate d’oro estratte ogni anno dai lavoratori: quasi tutte esportate illegalmente. Se questa operazione dovesse funzionare, Tshisekedi la potrà sbandierare sui suoi vessilli elettorali. Se invece si tratta di fumo negli occhi, e lo si vedrà nei prossimi mesi, avrà fatto un regalo ai suoi maggiori oppositori: Martin Fayulu, espropriato della vittoria nel 2018 da una commissione elettorale compiacente, e Moise Katumbi, già governatore del Katanga”.
La situazione della regione orientale è resa più complessa anche dai pessimi rapporti con i vicini. Per Filip Reyntjens, africanista docente presso l’università di Anversa “le relazioni tra Repubblica democratica del Congo e Ruanda sono in una fase di costante deterioramento. Al centro del nuovo conflitto nell’est della Rdc, c’è la rivalità di lunga data tra Ruanda e Uganda, la cui posta in gioco è sia militare sia economica. La crisi nell’est del Paese si inserisce in un quadro regionale complesso, in cui Paesi rivali sostengono gruppi ribelli nel territorio di Paesi vicini con funzione destabilizzante, in un turbinio di reciproche accuse e smentite. Quando nel novembre del 2021 – aggiunge l’africanista – l’Uganda ha concordato con il governo di Kinshasa di dispiegare le proprie forze armate nel grande Paese africano, senza che il Ruanda venisse consultato, Kigali ha riattivato una forza ribelle congolese dormiente, l’M23, che aveva sostenuto dieci anni prima, fino alla sua sconfitta da parte di un intervento militare internazionale”.
Come nella maggior parte dei Paesi africani anche il Congo è dunque afflitto da povertà e violenze endemiche, che durano da decenni. “A più di sessant’anni dalla sua indipendenza – sottolinea il gesuita Camille Mukoso, collaboratore della sezione francese dell’Africa della Radio vaticana – il Congo è un Paese a brandelli, i cui abitanti sono ridotti a una povertà estrema. Inoltre, è stato sul suolo congolese che si è registrata quella che alcuni chiamano la ‘prima guerra mondiale africana’, a causa del coinvolgimento degli eserciti di una decina di Paesi. Questa guerra, che ha avuto luogo in due fasi – dal 1996 al 1997 e dal 1998 al 2003 (secondo altri, dal 1998 almeno fino al 2021) – ha causato la morte di diversi milioni di persone, soprattutto civili. Si tratta del più alto numero di morti in un conflitto dalla fine della Seconda guerra mondiale”.
Ma mentre della storia dell’Occidente si parla in continuazione, nelle diverse testate giornalistiche e nelle scuole, l’Africa viene menzionata esclusivamente per le ingenti risorse che solleticano gli appetiti nostrani, e per la gran massa di immigrati che arrivano dal continente più povero del mondo. Il pontefice ha avuto il merito di dare visibilità a chi non ne ha. Ma, una volta partito, è lecito dubitare che i riflettori restino ancora puntati su una terra martoriata da decennali conflitti.