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«Noi siamo la prima superpotenza culturale del pianeta» e «il nostro petrolio è la cultura», sono le frasi che da novembre 2022 il ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, ripete quasi a ogni evento pubblico in cui partecipa. Per il ministro, il patrimonio artistico-culturale dell’Italia è un volano dell’economia e del Pil. Eppure, secondo l’Eurostat, l’Italia è terzultima in Europa per spesa in servizi culturali – appena lo 0,3% del Pil a fronte di una media europea dello 0,5% – e continua a tagliare fondi alla cultura.
L’ultima legge di bilancio elimina infatti 297 milioni di euro al settore culturale rispetto al 2023. Un’emorragia iniziata già dal 2009, quando l’Italia ha raggiunto il picco della spesa culturale con 5 miliardi e 700 milioni.
I FONDI ALLA CULTURA
La spesa del ministero della Cultura è passata dal picco di 5,7 miliardi di euro del 2009 ai 3,5 miliardi del 2024 e secondo l’ultima legge di bilancio è destinata a scendere ancora
I tagli alla spesa pesano soprattutto sul mondo dello spettacolo e l’editoria: in particolare, sono stati tolti 43 milioni di euro annui al Fondo per lo sviluppo degli investimenti nel cinema e nell’audiovisivo e ulteriori 50 per gli spettacoli dal vivo. Trentotto milioni, inoltre, i fondi tagliati al settore bibliotecario. Aumentano, al contrario, gli investimenti per la valorizzazione del patrimonio archeologico: quattro milioni per le campagne di scavi archeologici a Pompei e in altri parchi nazionali; 10 milioni di euro annui investiti per la manutenzione ordinaria degli stessi e 1,6 milioni di euro sono andati al Fondo per la tutela del patrimonio culturale, nato nel 2014 con l’intento di assicurare risorse stabili alla tutela del patrimonio culturale.
Una linea politica che ricalca le scelte dei passati governi e mette al centro il solo patrimonio artistico, più remunerativo, affidandolo per lo più a cooperative e aziende private, come già raccontato da IrpiMedia. La strategia è esplicitata nella sezione della legge di bilancio in cui i ministeri descrivono le scelte di investimento del triennio successivo.
Il ministero della Cultura è lapidario: «Sarà senz’altro riconosciuta grande importanza alla valorizzazione economica del patrimonio culturale e concessione a terzi con l’obiettivo di perseguire una sempre maggiore remuneratività del patrimonio mediante l’incremento della redditività economica degli istituti e luoghi della cultura». D’altronde i continui investimenti nell’attrattività turistica del nostro Paese hanno dato i loro frutti: dal 1996 – primo anno in cui si registrano gli incassi nei musei e nelle aree archeologiche – ad oggi, gli introiti sono aumentati di quattro volte.
Tuttavia, l’aumento dei visitatori e degli incassi non sembrerebbe aver generato un impatto significativo sulla partecipazione culturale: nel rapporto Istat del 2022 sul tempo e la partecipazione culturale, si legge che più del 50% della popolazione dopo i sei anni non ha mai partecipato a nessuna attività culturale e solo il 39% ha letto almeno un libro. Inoltre, la spesa culturale, a parità di stipendio, è crollata a 19 euro al mese per famiglia nel 2022, meno di un terzo se paragonata al 2015.
LA SPESA DELLE FAMIGLIE PER LA CULTURA
In sette anni la spesa culturale delle famiglie italiane è scesa da 60 a 19 euro al mese. Cinema, teatri e concerti i settori più colpiti
Se guardiamo poi agli ingressi dei musei, scopriamo che il solo Museo del Louvre di Parigi fattura più di tutti i musei italiani. Tutto il contrario di quello che ci si aspetta da una «superpotenza culturale». L’Italia non è competitiva e manca di idee e progettualità in ambito culturale, tanto che anche l’impatto dei progetti finanziati con il Pnrr potrebbe essere minimo.
Le difficoltà italiane di progettazione e di spesa
Un chiaro esempio della mancanza di progettualità e della volontà di finanziare il turismo più della cultura in senso più ampio è rappresentato dalle Capitali Italiane della Cultura, il progetto nato nel 2014 sulla scia di un progetto europeo.
Ogni anno una o più città italiane vengono selezionate tramite un bando di concorso indetto dal ministero della Cultura, per mettere in mostra se stesse tramite il proprio patrimonio e sviluppo culturale: «L’esempio di Procida è lampante: nel 2022 c’è stato un boom turistico che l’isola ha gestito a fatica essendo molto piccola, ma oggi è rimasto poco o nulla perchè non si è riusciti a progettare a lungo termine», spiega a IrpiMedia Massimiliano Zane, consulente del ministero della Cultura dal 2021 ed economista culturale.
Lo conferma Melissa Scotto di Mase, giornalista procidana che ha visto l’aumento degli arrivi di turisti nel 2022 – circa 600.000 – e il successivo declino: «Sono rimasti i pali nuovi delle fermate degli autobus, che non abbiamo mai avuto, ma a livello culturale non c’è stato nessun evento nuovo che sia rimasto nel cartellone estivo».
Per Massimiliano Zane il marketing turistico applicato alla cultura genera solo dei problemi «perché ti permette di attrarre molte persone nel breve periodo ma non lascia nulla sul territorio per chi ci abita». A Procida «sono stati molto bravi nella comunicazione, nell’attrarre le persone, ma non hanno progettato nulla che sia rimasto. C’è una mancanza di preparazione», secondo Scotto di Mase.
Il paradigma locale di Procida può essere esteso anche a livello nazionale: per sviluppare dei progetti culturali efficaci serve una capacità di progettazione e delle competenze trasversali – economiche, architettonico-artistiche, manageriali – che l’Italia fatica a intrecciare.
È più semplice affidarsi al parametro dell’attrattività turistica, perché è «economicamente parametrizzabile», spiega ancora Zane. Una mostra o un evento culturale a cui verranno poche persone sarà un insuccesso e quindi i finanziamenti verranno tolti o rimodulati ma «la progettazione culturale ha altre finalità: non si tratta solo di quantità di biglietti staccati, ma di valutare l’impatto che ha sulla comunità di riferimento a lungo termine», aggiunge.
Questo spiegherebbe anche la carenza cronica di fondi per il comparto culturale e una più naturale predisposizione italiana a puntare sui finanziamenti al turismo, spacciandoli per investimenti alla cultura.
Eppure dal 2021 il settore culturale si è trovato sotto una buona stella, perché sono stati rinnovati i Piani Europei di Coesione 2021-2027, con cui l’Europa pianifica lo stanziamento di fondi ai vari Stati membri: per la cultura sono stati previsti 648 milioni di euro di cui 177 per l’ampliamento della partecipazione culturale. Con il Pnrr, poi, alle amministrazioni centrali e locali sono arrivati per la prima volta molti più soldi di quelli che hanno solitamente gestito, ma non è bastato per cambiare passo, anzi, si sono aperti due fronti instabili.
Il primo a livello ministeriale: «Quando si fanno concorsi per l’assunzione di funzionari, il ministero cerca antropologi, etnologi, storici dell’arte e mai economisti o manager». Per questo motivo i funzionari pubblici sono preparati teoricamente, ma «vanno in difficoltà quando si tratta di progettare e valutare gli impatti di un investimento come avviene, ad esempio, nel Pnrr», afferma Zane.
Lo stesso problema lo ritroviamo anche nelle amministrazioni locali, con i piccoli comuni in difficoltà perché non hanno personale qualificato in grado di immaginare una progettazione culturale, ed è il motivo per cui alcuni bandi del Pnrr, come quello per aumentare l’attrattività dei borghi, vanno a vuoto.
«Sono arrivati dei progetti raffazzonati in cui molto spesso si chiedevano soldi per lavori che erano già iniziati o alcuni in via di completamento, ma sono stati pochi i progetti dedicati alla piena valorizzazione (del patrimonio culturale, ndr)», racconta ancora il consulente.
Il Pnrr investe poco nella cultura
Che il Pnrr non avrebbe cambiato il modo di concepire la cultura era chiaro già dalle prime fasi della sua – seconda – stesura.
Nel marzo del 2021, quando il Governo Draghi inizia a lavorare sulla bozza del Pnrr ereditata dal Governo Conte II, vengono ascoltati 63 tra enti, sindacati, associazioni e professionisti. Il 24 marzo viene pubblicata la sintesi delle audizioni, molte delle quali si limitano a chiedere finanziamenti per il turismo, settore in crisi dopo la pandemia, facendo leva anche sul patrimonio artistico-culturale.
L’Istat, per esempio, sostenne che «gli interventi nel settore del turismo dovranno orientarsi verso […] una maggiore integrazione delle politiche culturali e turistiche per la piena valorizzazione dell’enorme potenziale dei territori». Federculture, la più grande associazione di imprese culturali e turistiche in Italia, si disse invece soddisfatta degli «investimenti strutturali nei trasporti e nella digitalizzazione (previsti dal Piano, ndr) premessa indispensabile anche per la fruizione del patrimonio e degli eventi culturali».
L’unico soggetto che in quell’occasione sottolineò che la cultura non poteva essere solo un mezzo di rilancio turistico fu il Museo Egizio di Torino, che scrisse: la «generazione di valore culturale non può essere legata al mero profitto ma deve produrre un beneficio diretto alla comunità locale». Per farlo sono necessari «fondi certi e costanti e non misure assistenziali» che mettano la ricerca e la didattica al centro delle politiche sociali.
Tra gli obiettivi generali che si leggono nel documento definitivo c’è «l’incremento dell’attrattività turistica e il miglioramento della fruibilità del patrimonio culturale».
Diversi progetti per la cultura previsti dal Pnrr confermano la mancanza di idee: parliamo di progetti pensati venti anni prima, come Italia.it di cui IrpiMedia si è occupata in un precedente approfondimento, o altri, come la piattaforma statale museiitaliani.it, che dovrebbe sostituire i concessionari privati nella vendita di biglietti online ed evitare il secondary ticketing, ma che risultano insufficienti. O ancora, la Digital Library – un progetto creato nel 2019 e messo in stand-by per mancanza di fondi e ora rifinanziato con 500 milioni di euro – che permetterebbe di digitalizzare il patrimonio di musei, archivi, biblioteche e luoghi della cultura, ma senza specificarne le finalità.
Il resto dei finanziamenti per il settore sono diluiti in altre missioni del Pnrr e vanno soprattutto in direzione di una didattica avanzata e digitale e di una maggior adesione del settore culturale e turistico ai principi di sostenibilità ambientale.
Pspp, una possibile soluzione?
I bandi del Pnrr distribuiscono dei finanziamenti a pioggia, che non obbligano chi partecipa a una progettazione strutturata. «Il Pnrr dovrebbe rispondere a delle logiche europee che vanno oltre la linearità di finanziamento, progettazione e realizzazione come siamo abituati in Italia», sostiene Zane. Per L’Europa, infatti, la progettazione di un intervento culturale dovrebbe prevedere l’integrazione di soggetti pubblici e privati in grado di intrecciare diverse «linee di finanziamento e concorrere nella realizzazione e nel beneficio che un determinato investimento avrà nel futuro per la comunità», conclude.
Progetti di questo tipo esistono in Italia dal 2016, si chiamano Partenariato Speciale Pubblico-Privato (Pspp). In sette anni, tuttavia, sono stati attivati solo 21 progetti di questo tipo, di cui il 70% nel Nord Italia. Il Partenariato «speciale» pubblico-privato (Pspp) è una forma di collaborazione a lungo termine – anche 50 anni – tra soggetti pubblici e soggetti privati finalizzata alla fruizione e valorizzazione del patrimonio immobiliare culturale.
Si definisce speciale perché rispetto al semplice rapporto pubblico-privato non è un contratto tipico dove il soggetto pubblico dà in gestione un bene al soggetto privato solo per fine di lucro, ma un accordo di collaborazione in cui entrambi si assumono le responsabilità di progettazione per finalità di interesse generale. Il partner privato non è titolare di un diritto esclusivo di sfruttamento economico del bene, ma obbligato ad investire utili e ricavi nel potenziamento e nella sostenibilità del processo di valorizzazione del bene.
PARTENARIATO PUBBLICO-PRIVATO E CONCESSIONI: LE DIFFERENZE
Il primo esempio di recupero tramite il Pspp è stato quello dell’ex Monastero del Carmine a Bergamo, un complesso monumentale edificato a partire dalla seconda metà del 1300 e rimasto pressoché inutilizzato fino al 1996. In quell’anno il Teatro Tascabile di Bergamo ha iniziato a svolgere all’interno i propri spettacoli. Nel 2018 per la prima volta è stato aperto un Pspp tra il teatro e il Comune di Bergamo. Oggi il Monastero è stato completamente ristrutturato e oltre a essere la sede del Teatro Tascabile ospita una biblioteca, un atelier e una foresteria.
Una strada che abbiamo già intrapreso, per altro, nel 2014, con l’istituzione di 40 “musei autonomi” (dotati cioè di una struttura manageriale in grado di prendere decisioni indipendenti dal Ministero) che, lo scorso luglio, Sangiuliano ha fatto diventare 60.
«I grandi musei devono diventare delle piccole aziende», ha spiegato il ministro, con una propria autonomia scientifica, finanziaria, contabile e organizzativa. Tuttavia con questa formula lo Stato perde l’80% degli incassi che vengono utilizzati per le attività del museo. Il Ministero, invece, si occupa di stipendiare e fornire il personale che non va a bilancio di ogni museo. Ma i musei che dovrebbero garantire un servizio pubblico, possono diventare sempre di più delle società di profitto?
Sembrerebbe più valida l’alternativa proposta dal Museo Egizio durante le audizioni per la scrittura del Pnrr, per il quale gli istituti museali non vanno considerati solo come luoghi di passaggio in cui i visitatori pagano un biglietto, ammirano le opere e se ne vanno, ma come centro di una rete culturale più ampia.
Formazione e ricerca sono, secondo il Museo, i due pilastri a cui affidarsi per aumentare la partecipazione culturale dei cittadini e creare un circolo virtuoso tra istituti culturali, università e scuole. Questo presuppone che ci sia una capacità di progettazione che vada oltre «l’ottica dell’assistenzialismo»: molti soldi concessi indiscriminatamente, senza idee su come investirli. Il patrimonio culturale» è fatto di tutti gli attori del settore – istituti culturali, biblioteche, cinema, teatri, università, scuole – integrati in una collaborazione virtuosa. L’Italia, altrimenti, non sarà mai una superpotenza culturale, ma solo un parco archeologico a cielo aperto, attraversato da visitatori inconsapevoli e incapaci di comprendere il patrimonio di cui dispongono e beneficiano.