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31 Agosto 2024NOVECENTO
Lo sgretolamento delle idee, che prima generavano dibattito, confronto scritto e visioni di futuro, sembra far volgere al termine una lunghissima stagione culturale, nonostante alcune proposte lottino ancora contro l’oblio e la nuova modernità
Quello passato è stato anche il secolo dei periodici, soprattutto quelli culturali in cui gli intellettuali si confrontavano su temi letterari, storici e filosofici e sociali e sul loro impegno politico
Arriva in libreria per Succedeoggi libri, a cura di Gloria Manghetti, La religione delle lettere. L’omaggio della “Fiera letteraria” a Giuseppe De Robertis (pagina 148, euro 16,00). Era il 3 aprile del 1955, otto anni prima della sua scomparsa, quando gli affezionati lettori del «periodico di larga circolazione e rappresentativo dell’establishment letterario più consolidato e ufficiale» (così Manghetti) ebbero in mano il numero 14 dell’anno X curato dal giovane allievo Leone Piccioni, che «in poco meno di due mesi» mise insieme una squadra di firme d’eccezione orchestrata per estrazione anagrafica, dai più anziani Ildebrando Pizzetti e Enrico Pea al giovanissimo Luigi Baldacci, cui si dovranno aggiungere Giovan Battista Angioletti, Carlo Bo, Lanfranco Caretti, Carlo Cassola, Giulio Cattaneo, Emilio Cecchi, Enrico Falqui, Gianfranco Folena, Mario Fubini, Nicola Lisi, Giorgio Luti, Mario Luzi, Gianna Manzini, Adelia Noferi, Alessandro Parronchi, Adriano Seroni, Giuseppe Ungaretti, oltre ovviamente lo stesso Piccioni. Chi fosse De Robertis, protagonista della cultura italiana sin dagli anni eroici della rivista La Voce, di cui diventò direttore alla fine del 1914 trasformandola in periodico esclusivamente letterario, lo scrisse bene Cecchi in poche righe nell’articolo dettato in morte: « Nonostante la modestia e ritrosia del suo carattere, e la sua vita così in disparte, negli ambienti della cultura la presenza di Giuseppe De Robertis fu sempre profondamente sentita». È stato «il nucleo di carte riemerse in tempi recenti dall’archivio privato di Leone Piccioni» a consentire alla curatrice «di ricostruire il dietro le quinte» di tutta l’operazione: «appunti, corrispondenze, autografi o dattiloscritti dei testi poi pubblicati ». Si tratta d’un materiale in cui poeti, narratori e prosatori, critici e alcuni allievi si misurano con quella grande eredità, che testimonia certamente i fasti d’una stagione straordinaria definitivamente
sigillata in sé stessa e perduta, ma induce anche nel lettore, sempre più sconfortato dalla miseria del nostro oggi, il sentimento lancinante d’una fine definitiva, che è quella del pensiero critico in quanto tale e dell’eleganza non solo di stile che, una volta, lo contraddistinse.
La Fiera Letteraria fu fondata nel 1925 restando attiva, con interruzioni, fino al 1977. Ecco perché il lettore non ne troverà traccia nel libro di Giuseppe Muraca stampato per Il Convivio Editore (pagine 136, euro 14,00) intitolato Un fare comune: Da « Politecnico» a « Diario». Riviste italiane del secondo Novecento e arricchito da un breve contributo di Gabriela Fantato «sulle riviste femministe degli anni Settanta», che muove da un famoso intervento di Carla Lonzi del 1970, Sputiamo su Hegel, che inaugurò «un ampio dibattito», in cui ci si provò «a svelare il grande rimosso culturale del corpo e della voce femminile, attraverso un percorso di critica del pensiero occidentale, teso a dare voce alle donne». Ma torniamo al saggio dell’operosissimo Muraca: che mi piace restituire a partire dalle ultime pagine, non foss’altro perché arrivano a un tempo – gli anni di Diario, la rivista a quattro mani redatta da Piergiorgio Bellocchio e Alfonso Berardinelli, nata dalle ceneri di Quaderni piacentini – che è già quello in cui muovevo i primi passi di recensore quotidiano ed ebdomadario, in rapporto concreto coi due maestri citati, dai quali spero d’aver imparato qualcosa.
La storia delle riviste del Novecento compendia probabilmente in sé quella stessa del secolo («il secolo delle riviste», appunto), che non è stato breve, ma lunghissimo nella sua procrastinata crisi, che non finisce mai di finire. La storia di Diario – e soprattutto di Bellocchio, fondatore con Grazia Cherchi anche di Quaderni piacentini – è la risposta a un senso di fallimento, che fu quello d’una intera generazione, che sognava una rivoluzione radicale su una strada che era quella d’un marxismo più o meno critico, ma che si ritrovò al suo meglio, come nel caso di Bellocchio, «dalla parte del torto ». Scrive Muraca: « L’esperienza di “Diario” affonda le radici nella crisi politica e ideale degli anni Ottanta ed è ispirata ad una sorta di “pessimismo radicale”, ad un programma, seppur minimo, di critica delle ideologie e della politica, ben evidenziati sin dai primi testi della rivista». Non restava altro, per il critico piacentino, che «limitare il disonore» (Bellocchio dixit), l’unica possibi-lità, probabilmente, per esorcizzare quell’irredimibile «senso di solitudine, d’amarezza e d’impotenza», che era – sono sempre parole di Muraca – «la spia di una profonda crisi d’identità, di una delusione politica e morale».
E pensare che in quel secondo dopoguerra – il 1945 è la data scelta dal critico per cominciare il suo discorso – tutto sembrava convergere verso furori non più astratti e fondate speranze. Ma, come è noto, quella stagione durerà poco: come dimostra la polemica tra il fervoroso Elio Vittorini, promotore di Il Politecnico, e il comunista Mario Alicata, poi supportato anche da Togliatti. Fu, come scrisse un altro protagonista, Franco Fortini, «la fine dell’idillio » fra gli intellettuali e il Partito.
Il Politecnico è all’inizio di tutto, Diario al capolinea. In mezzo tutto un fiorire di riviste che Muraca scheda con precisione e passione. Tra le molte: Discussioni, Ragionamenti, Officina, Il Menabò, Il Verri, Quindici, Rendiconti, Quaderni piacentini, Giovane critica (interessantissima l’intervista a uno dei direttori, Antonio Lombardi), Nuovo impegno, Ombre rosse, Mondo beat, Salvo imprevisti, Alfabeta, Linea d’ombra.
Ora che il secolo s’è concluso, e nonostante la permanenza di alcuni testimoni – diciamo così – di sangue blu di quel tempo irripetibile (da Nuovi Argomenti di Alberto Moravia a Paragone di Roberto Loghi e Anna Banti), resta solo la percezione d’uno sgretolamento. Defunto l’entusiastico e politico spirito di gruppo tutto pare affidato alla resistenza di pochi individui sempre più stanchi. Quanto durerà?