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19 Gennaio 2025A Venezia, Ca’ Pesaro Roberto Sebastián Matta, la «matematica sensibile – architettura del tempo» al più alto livello di qualità, magica e ironica: dipinti dalla collezione della figlia Alisée, e dai musei di Chicago, Madrid, Berlino e New York…
VENEZIA
La mostra che Venezia, in Ca’ Pesaro, fino al 23 marzo, per le cure di Dawn Ades, Elisabetta Barisoni e Norman Rosenthal, dedica a Roberto Sebastián Matta (Santiago del Cile, 11 novembre 1911 – Civitavecchia, 23 novembre 2002) riassume, in settantuno opere datate 1936-2000, un’intera esistenza, che il catalogo Silvana Editoriale restituisce attraverso sette decenni scanditi da autentici capolavori provenienti dalla collezione della figlia dell’artista, Alisée, ma anche dai musei di Chicago, Madrid, Berlino e New York.
L’impressione immediata è che opere come Morfologia psicologica (1939), Here, Sir Fire, Eat! (1942), Les Témoins de l’univers (1947-’48), The And of the World (1953), Auto End-Cuba Quest (1967), Coigitum (1972), Source de Bourse (1986), Comme elle est vierge ma forêt (1992) non hanno perduto nulla della forza leggendaria di Matta, della sua ironia, della sua intelligenza, dei suoi ricordi di una vita che ha attraversato il secolo, amico di Federico Garcia Lorca e di Le Corbusier, di Moore e di Gropius, di Breton e di Duchamp, di tutti i surrealisti tra i quali viene da sempre inserito, di tutti gli impressionisti astratti americani, di architetti come Ernesto Lapadula che con il Palazzo della Civiltà del Lavoro lo restituiva alle sue prime passioni o di Vincenzo Monaco e Amedeo Luccichenti per i quali disegnava progetti per la nave Raffaello, di un poeta come Leonardo Sinisgalli nel percorso parallelo poesia-scienza. Un viaggio sempre vivo negli ultimi grandi dipinti, nati da una rilettura del suo testo apparso nella primavera del 1938 sul n. 11 di «Minotaure»: Mathématique sensible-Architecture du temps, chiave di lettura dell’intera sua opera.
La vitalità di Matta, tante volte verificata negli studi di Parigi o di Londra, nell’antico ex convento dei Passionisti disteso su una delle colline di Tarquinia che guardano il mare, quasi sempre avendo tra le mani il «Paradiso» di Dante considerato un vero trattato di astrofisica, si riassume nel suo nomadismo che fonde il sentimento con la scienza e l’uno e l’altra approfondisce con l’ingegno, per scoprire che c’è una ricchezza in ognuno e che potremmo fare cose insieme per risvegliare la vita, per poter camminare, per vedere gli alberi, la terra.
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Matta ritorna spesso sul mondo che vediamo, da ri-formare, da sentire come avventura; sull’artista, da ri-mostrare nel suo vocabolario, a volte ripetitivo, nelle sue fantasie, nella curvatura dell’ignoto; sull’uomo, da ri-orgammare, da vivificare nella sua anima da cui ha origine l’intelletto. Perciò affronta dipinti di grandi dimensioni, da riprendere e trasformare più volte e in tempi diversi, attento alla geometria dell’istante, dell’essere adesso, della coscienza fatta universo. È la geometria che in ogni occasione ti rende realista, sottolinea Matta, che ha lasciato «i disegni dell’architettura costruibile per entrare nei disegni dell’architettura mentale della coscienza», che vuole tradurre il dove della ricerca e dei desideri. Un dove carico di segni in bianco e nero, elettrici, lucidi nella loro complessità. Non considerava suoi maestri Leonardo da Vinci, Nietzsche e Einstein?
L’imprevedibile e il sorprendente, l’elemento accidentale, occasionale, vago e indistinto, che lo circonda, diventano punti di derivazione e di raccordo, di convergenza e di allusione nel lavoro di Matta che, col suo sguardo penetrante, mette insieme la sontuosa eredità del paese d’origine, il Cile, così evidente nelle sculture e nelle ceramiche, con le reminiscenze dell’intensa energia primordiale e queste e quelle fa fluttuare in rigorosi e dinamici intenti plastici, in volumi carichi di sostanza emozionale.
Deformazioni? Forme scoperte, preesistenti, dal vocabolario di anno in anno sempre più rigoglioso, dalla ferma struttura e, a volte, dall’astrazione ardita. Forme fino a ieri sconosciute, rivelate da una realtà sorpresa e superata attraverso l’introduzione di strutture volumetriche su superfici piane, sfuggendo al modellato. L’oggetto è sottomesso, liberamente, alla forma immaginata. La forma, in assoluta autonomia, viene espressivamente trasposta, suggerisce ciò che è e ciò che potrebbe essere, immagine diversa da quella sistemata nel mondo delle apparenze. Visto e vedendo – dice Matta – ognuno cresce in sé verso la propria persona.
La scultura ritorna all’origine, all’ispirazione non degenerata in artificio, all’intensa vitalità «primitiva», alla semplicità e alla spontaneità di un linguaggio artigianale che, come costante filo conduttore, allude agli stati interiori, al sogno, al mondo dell’inconscio, avendo a fondamento l’esperienza continua della vita.
La pittura va a scuola di cerimonia, assorbe riti e miti per esprimere l’armonia che scaturisce dalla fusione del magico-religioso con l’osservazione quotidiana. La figura-feticcio diventa il fermento necessario a rinnovare la propria ispirazione, per dar forma ai propri impulsi: non più sagome fantastiche, senza significato, ma figure dai volumi compatti, dalle strutture essenziali, esuberanti nei loro colori aspri.
La pittura e la scultura si fanno trascrizione plastica di avvenimenti, di grafismi laceranti, di tumulti di pensieri, di antichi sortilegi, in un cosmo che di volta in volta si prepara ad accogliere varietà di materiali e di conoscenze. Il tragico e il comico, l’invettiva e l’ironia si sviluppano sui volti di antichi guerrieri e di animali come una sorta di esorcismo, a sostegno della parola, di ciò che anima le cose e ne traccia la storia. «La mia – dice Matta – è una preoccupazione legata al prolungamento del verbo vedere, che viene dalle cose che si vedono con i raggi infrarossi, ultravioletti e al microscopio, cose che modificano la retina nuda. La poesia è un metodo scientifico del vedere l’altra cosa delle cose».
Le consonanze, le allitterazioni, i movimenti, il disegno della parola, sono presenti nella pittura con la stessa leggerezza e la stessa insaziabilità. La forma più complessa si regge su niente, come la Crocefissione del 1978 (non presente in mostra), di una epifania sconcertante nelle sue acri e segnate cavità del petto che indicano la tensione e il movimento di un’idea, i germi psichici istantanei, la sensazione di un dolore vivo in un minimo di tempo. Il dono di Matta è proprio questa capacità di cogliere nel pressappoco iniziale di una emozione – o del ricordo di sensazioni – le impressioni che compongono un’armonia dissonante di forme.
Fantasia e fantasma ostentano, in Matta, la medesima radice. Soprattutto quando agisce sulle immagini convenzionali esasperandole, sugli schemi del comportamento affidati a maschere grottescamente ridotte a una rappresentazione dalla mimica smodata, a stratificazioni di significati nei vari gradi delle raffigurazioni tipiche. Ne deriva un’irruenza vorticosa ma calcolata, una presa di possesso tematico-linguistica ambigua ed enigmatica quanto ironica, dai riflessi lucidi e dalla sapienza inquietante, consapevole delle numerosissime fonti evidenti dell’universo di segni pullulanti sulla materia.
I fantasmi esibiti da Matta non sono artifici dell’invenzione. In pieno surrealismo, come nei giorni precedenti la morte, obbedivano a schemi dinamici capaci di suscitare metafore della provocazione e della forza, metodicità di rovesciamenti. Ora, come allora, partivano dalla memoria, non dall’istinto, e miravano a ricostruire le geometria sotterranea del pensiero, la chiara coscienza dell’oscuro cara a Lautréaumont, per volgersi verso orizzonti imprevisti, per avvertire – come è stato, da sempre, compito dell’arte – del tempo che verrà.