Horses, Hyundais, and headless rubber goats: A dispatch from the 5th World Nomad Games
20 Ottobre 2024IO E LA MIA REGINA NINA SIMONE
20 Ottobre 2024di Luigi Ippolito
Il termine left behind è entrato da tempo nel vocabolario politico del mondo anglosassone: sono gli strati della società lasciati indietro dalla globalizzazione, quei perdenti che finiscono per votare Donald Trump o la Brexit. Ma era una traiettoria inevitabile? È la domanda che si pone Paul Collier, docente a Oxford e fra i più noti economisti dello sviluppo, nel suo Poveri e abbandonati (in originale proprio Left behind).
Collier mette sotto accusa l’ortodossia economica del libero mercato, a suo dire responsabile del fatto che, anche in Paesi che hanno goduto di una crescita complessiva, le aree svantaggiate hanno visto aumentare il proprio divario rispetto a quelle più ricche: il suo è un viaggio dall’Inghilterra agli Stati Uniti, dal Giappone alla Colombia, per mostrare come le regioni e le nazioni in declino economico si ritrovino con poche possibilità di recupero, ignorate da chi potrebbe venire in loro aiuto. Eppure alla fine il suo messaggio è pieno di speranza: traendo lezioni da campi disparati — la psicologia comportamentale, la biologia evolutiva, la filosofia morale — Collier spiega come sia possibile adattarsi alle esigenze delle singole economie per costruire un futuro globale più inclusivo.
Professore, partiamo dall’attualità: i disordini razziali scoppiati in Gran Bretagna ad agosto hanno avuto il loro epicentro proprio nelle aree «dimenticate» descritte nel suo libro, mentre in Germania assistiamo ai successi della destra estrema nelle regioni orientali più arretrate: le scelte economiche che lei critica stanno avendo conseguenze politiche non volute.
«La prima conseguenza non voluta è stata la Brexit. Ogni regione dell’Inghilterra, al di fuori di Londra e del ricco Sudest, ha votato per la Brexit: questo non aveva nulla a che vedere con Bruxelles, era un ammutinamento contro Londra. Ma è stato un danno proprio per le regioni più povere, perché erano quelle che avevano più bisogno di commerciare con l’Europa: Londra non commercia granché con l’Europa, Londra sposta soldi in giro, è uno dei tre grandi hub globali con New York e Singapore; dunque non è stata così colpita. Ma la gente che ha votato per la Brexit lo ha fatto perché era così arrabbiata per essere stata lasciata indietro da questa eccezionale divergenza, che ha visto tutte le regioni dell’Inghilterra venire distanziate da Londra: ecco una conseguenza non prevista prodotta da quelle regioni trascurate».
Ma, checché se ne pensi, la Brexit era comunque una scelta politica legittima: ora vediamo invece l’emergere di tendenze molto più inquietanti.
«Rabbia e disperazione sono il risultato di un cocktail di prolungato disprezzo e negligenza: il senso di essere cittadini di seconda classe, di non contare. Nelle elezioni che abbiamo appena avuto in Gran Bretagna, le regioni più povere sono state quelle che hanno votato di più per Nigel Farage o per l’estrema sinistra o gli islamisti radicali. Sono tutti un po’ come Trump, dei ciarlatani, ma i loro discorsi sono attraenti e almeno sembrano offrire una speranza: non è una speranza credibile, ma la gente disperata si aggrappa a quella».
Questo risentimento sta diventando anche violenza: i disordini recenti sono stati bollati come di estrema destra, aizzati dai social media, ma il suo libro è molto più utile per comprenderli a fondo.
«È questa la combinazione: rabbia, risentimento per essere ignorati come cittadini di seconda classe, disperazione. È la disperazione di chi ha votato in un modo, per la Brexit, ma questo non ha fatto nessuna differenza: non sono stati ascoltati, ed è questo che produce la rabbia che esplode in disordini. Ignorati due volte, prima economicamente e poi politicamente: e ignorati anche dopo queste ultime elezioni. Il primo ministro Keir Starmer ha un background da avvocato, da ex capo della procura generale, dunque la sua reazione è stata quella di infliggere rapide punizioni: è rimasto nel suo territorio conosciuto: “Ci sono disordini, puniamoli”. Va bene sbattere la gente in galera, ma accanto ci dovrebbe essere una narrativa che dice: puniremo i responsabili dei disordini, ma vi aiuteremo perché siete stati gravemente ignorati per tanti anni e faremo tutto il possibile per restaurare il vostro senso di orgoglio nella comunità, porteremo lavoro e cose simili. Ma nessuno ha detto una cosa del genere».
Non sembra esserci un’offerta politica di autentica speranza, solo di risentimento.
«Sì, e di ricerca di capri espiatori. Cercano qualcuno da incolpare, trovare capri espiatori e così semplice. È quel che fanno i leader estremisti: trovano qualche facile spiegazione. Abbiamo invece bisogno di sentire una chiara strategia di come le cose possono migliorare».
Ma in assenza di una chiara strategia, rischiamo nuove eruzioni di violenza.
«Assolutamente. Conosco i posti dove ci sono stati i disordini — Blackpool ,Rotherham, Grimsby. Blackpool ha il più alto livello di suicidi nel Paese: perché? Perché vai lì ed è triste, è una città che ha visto giorni migliori. Bisogna rendere questi posti sicuri e portare speranza».
Lei era un seguace dell’ortodossia economica liberista, della scuola di Chicago: come ha cambiato idea?
«Ha aiutato il fatto che sono cresciuto a Sheffield, una delle regioni più povere d’Inghilterra: ho visto la mia città cadere a pezzi, ho visto il danno enorme che è stato provocato. Ma perché l’industria dell’acciaio, che era lì a Sheffield, è crollata in Inghilterra ma non in Germania? Era un collasso evitabile: allora ho capito».
È stata quella una scelta ideologica, in nome del libero mercato?
«Era una ideologia economica: ho gradualmente capito che l’economia avanza un morto alla volta, sono bloccati in ortodossie stantie. Prima ho visto il danno enorme che una erronea gestione macroeconomica ha prodotto e ho capito che non doveva essere per forza così; e più di recente ho cominciato a comprendere le dinamiche del collasso, perché una volta che un posto comincia a declinare le forze di mercato rafforzano il declino. Milton Friedman sbagliava, credeva che le forze di mercato avrebbero aggiustato gli squilibri, in realtà è l’opposto: una volta che cominci a scivolare verso il basso, vai ancora più giù. I flussi di capitale escono dalle regioni povere, non vanno verso di esse: in Inghilterra i capitali defluiscono dallo Yorkshire verso Londra, l’Africa perde 200 miliardi di capitale l’anno, sposta i suoi soldi fuori dal continente. E in Italia abbiamo un flusso di capitale dal Sud verso il Nord, certamente un flusso di lavoratori».
Forse ideologia economica e forze di mercato non spiegano tutto: ci sono ragioni storiche per l’arretratezza, come nel Sud Italia.
«Certamente, il capitale sociale delle città-Stato del Nord e Centro Italia è diventato molto prezioso, la gente ha imparato a lavorare assieme al di là dell’orizzonte familiare, mentre il Sud Italia è rimasto una società molto gerarchica: quella mentalità dall’alto verso il basso ha fatto sì che la gente comune avesse poca agency, capacità di azione verso l’autorità, era una società della sfiducia, e in quell’ambiente tendi all’omertà: segretezza, sfiducia e gruppi familiari sono la base della mafia. Questa è stata l’eredità di una struttura autoritaria».
Questo è uno dei temi chiave del libro, che l’approccio dall’alto al basso non funziona, abbiamo bisogno di «agency» dal basso verso l’alto.
«Sappiamo dalla psicologia che abbiamo un desiderio innato di controllare la nostra vita: se siamo limitati e non possiamo controllare la nostra vita, si produce una reazione con cui cerchiamo di ristabilire l’automomia. Questo succede perché le relazioni di potere dall’alto verso il basso sono disfunzionali, perché non si può imporre l’obbedienza all’autorità: e senza questa le cose non funzionano, perché nessun governante ha abbastanza potere per raggiungere da sé obiettivi ambiziosi. Qual è la società più gerarchica al mondo? La Corea del Nord, una delle società più povere sulla Terra».
Ma la Cina è autoritaria e gerarchica, eppure ha successo economico.
«La Cina ha un livello sorprendente di obbedienza volontaria, perché sono riusciti a costruire un obiettivo comune su cui la gente è d’accordo».
Ma non è un modello che può essere esportato. Lei invece scrive che bisogna diventare come la Danimarca. Perché?
«Sulla base di tutti gli indicatori, le società nordiche sono quelle di maggiore successo al mondo, in termini di felicità, eguaglianza, mobilità sociale. La ragione per cui indico la Danimarca è che non ha vantaggi naturali di sorta, eppure è in cima a tutte le classifiche. La stessa Danimarca non è sempre stata quello che è, per cui diventare la Danimarca è diverso che continuare a esserlo. Nell’Ottocento era un posto terribile, come il Sud Italia, dominata da una spietata aristocrazia».
E come si è trasformata?
«È stato un lento processo di buona leadership, con un re che ha affrontato l’aristocrazia, assieme a un movimento sociale dal basso verso l’alto, in questo caso guidato dalla Chiesa».
Ma oggi vediamo in giro mancanza di leadership e movimenti dal basso che sono reazionari. Manca un vero soggetto politico.
«È una visione troppo disperata. Proviamo a mandare un messaggio più speranzoso: i leader continuano a cambiare e c’è spazio per movimenti sociali positivi, i social media lo rendono più facile. La maggioranza delle persone non è cattiva, ci siamo evoluti per essere comunitari, siamo i mammiferi più socievoli, pronti a contribuire a una comunità più ampia. Ciò che ci tiene assieme, ciò che ci muove è la mutualità e la reciprocità, che sono l’essenza della cittadinanza».
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