alessandro mondo
torino
Da presidio di civiltà, invidiato e talora copiato, almeno in parte, da altri Paesi, a bancomat di Stato dal quale hanno generosamente prelevato, generosamente per loro, i governi degli ultimi dieci anni, se non prima.
«La questione sta diventando più che mai filosofica, ovvero se si voglia continuare o meno a utilizzare il servizio sanitario nazionale per garantire il diritto alla salute, come sancito dall’Articolo 32 della Costituzione», riflette il professor Renato Romagnoli, direttore Centro Trapianti di fegato delle Molinette di Torino: le Molinette, con altre tre strutture, costituiscono l’azienda universitaria-ospedaliera Città della Salute.
Il professor Mauro Rinaldi, direttore Cardiochirurgia delle Molinette, è preoccupato: «L’Italia investe la percentuale più bassa del Pil in Sanità rispetto ad altri Paesi europei, le nuove tecnologie fanno lievitare i costi, per ora il servizio sanitario riesce a erogare prestazioni di altissimo livello a tutti, indistintamente». Un sistema, rimarca, «difficile da sostenere, ipotecato da sprechi e da una logistica vetusta: la polemica con il privato non ha senso, subentra dove il pubblico fallisce mentre deve essere complementare, il che richiede una regia pubblica più forte».
Un paio di giorni fa Rinaldi ha «revitalizzato» il cuore di un giovane donatore dopo il decesso, e prima del trapianto, sottoponendolo a circolazione extracorporea. Romagnoli dirige un Centro al top in Italia per numero di trapianti e sopravvivenza dei pazienti a uno e cinque anni. Ambiti strategici e interventi ipersofisticati eseguiti in un ospedale inaugurato nel 1935, tra i più grandi e importanti d’Italia, soggetto a lavori di messa in sicurezza dopo il cedimento di alcuni controsoffitti.
Il senso, anzi il nonsenso, è questo. E l’inadeguatezza delle Molinette, diciamolo subito, non rappresenta un’eccezione, a Torino, in Piemonte, come nel resto del Paese. Restando al Piemonte, stando ai dati della Corte dei Conti, su 166 strutture sanitarie, più della metà (51,7%) sono state costruite prima del 1960. I nuovi ospedali sono sulla carta, gli adeguamenti di quelli attuali permettono di tirare a campare ma non risolvono. Per non parlare del logoramento dei macchinari sottoposti a uso intensivo, di cui si parla anche meno.
«Eccellenze» sanitarie, a vari livelli, che ogni giorno fanno miracoli in contenitori datati, talora fatiscenti, con poco personale: è la sintesi di tanta parte della Sanità pubblica, al netto di statistiche che fotografano il problema ma non le soluzioni.
Meglio lasciar parlare i medici della Città della Salute, sapendo che quelli degli altri ospedali direbbero pressapoco lo stesso. «La salute, per essere garantita con i mezzi messi a disposizione dalla ricerca scientifica, ha costi inevitabilmente maggiori rispetto a dieci anni fa – argomenta Romagnoli -. Parlo non solo dei trapianti di fegato, ma delle innumerevoli applicazioni in ambito oncologico, delle malattie cardiovascolari, di quelle su base genetica. Esempi che chiariscono come serva una seria riflessione su quale strada si voglia imboccare nel futuro, dato che i cittadini continueranno sempre e comunque a chiedere di essere curati nel modo più aggiornato possibile».
Per Romagnoli, come per Rinaldi, e non solo loro, la risposta è inequivocabile: il servizio sanitario, pur con tutti i suoi acciacchi, resta lo strumento migliore, quindi da finanziare maggiormente, non da definanziare.
Il professor Mario Morino, direttore Chirurgia d’urgenza universitaria delle Molinette, accende un faro su un’altra conseguenza dei tagli e del deficit di investimenti: «La gravissima crisi di vocazioni che colpisce molte specialità mediche, in particolare quelle più “pesanti” come la Medicina d’Urgenza, l’Anestesia e la Chirurgia generale». Aumento dei posti nelle Scuole di Specialità e concorsi deserti: sembra un paradosso, è la realtà con cui devono quotidianamente misurarsi i direttori delle Asl e degli ospedali. Morino non ha dubbi nel motivare la crisi delle vocazioni: «Basse remunerazioni, scarso “riconoscimento sociale”, una rete ospedaliera vetusta, una vera persecuzione medico-legale che porta molti medici ad operare in condizioni di perenne medicina difensiva».
Di fatto, si assiste al progressivo disarmo di un modello che a lungo è stato vincente. Vale anche in ambito pediatrico, dove pesa la carenza dei professionisti, sia sul territorio che in ospedale. «L’aumento dell’età media e dei pensionamenti e il ridotto turnover hanno creato aree scoperte e ad alto rischio di disomogeneità assistenziale», avverte la professoressa Franca Fagioli, direttore Oncoematologia pediatrica al Regina Margherita e capodipartimento Pediatria alla Città della Salute, auspicando un modello organizzativo basato sul coordinamento tra pediatria territoriale, pediatria ospedaliera periferica e un forte centro di riferimento regionale.
Insomma: o si inverte la rotta, e in fretta, o la Sanità pubblica si disgrega, pezzo dopo pezzo. «La riduzione del personale, a tutti i livelli, porta a un aumento delle prestazioni con rischio di errori, o più semplicemente minor tempo per avere un colloquio indispensabile a far comprendere diagnosi e scelte terapeutiche», segnala tra gli altri problemi il dottor Paolo Broganelli, responsabile Struttura dipartimentale di prevenzione tumori cutanei Città della Salute. Nella sanità del 2023 anche il «tempo di cura» rischia di diventare un optional.