Federico Spandonaro presidente del Crea
Filippo Anelli presidente Ordine dei medici
Paolo Russo
«La sanità pubblica è un bene prezioso ma fonte di troppi sprechi, bisogna razionalizzare la spesa». In realtà hanno finito tutti sempre per «razionarla», perché ad usarla come un bancomat sono stati i governi democristiani prima, poi quelli di centrodestra, così come quelli di centrosinistra. Una «razionalizzazione» che in dieci anni, dal 2010 al 2020, è costata qualcosa come 37 miliardi di tagli, che non hanno risparmiato niente e nessuno, dagli ospedali alla medicina territoriale, dai macchinari sempre più obsoleti al personale in fuga da una sanità pubblica che li paga poco e li fa lavorare male.
Con la pandemia momentaneamente i finanziamenti sono risaliti. Ma, passata la paura del Covid, con il governo Meloni è già cominciata la discesa, che nel 2025 porterà a soli 75 miliardi le risorse disponibili al netto dell’inflazione. Nel 2006 erano 90.
Numeri che smascherano il vero andamento degli investimenti in sanità, che da decenni marciano al passo del gambero.
Del resto il bilancio del decennio passato per la sanità è tutto un segno meno. Sono meno 4.800 i medici ospedalieri, meno 9.000 gli infermieri, meno 8.000 i medici di famiglia e le guardie mediche. Meno 30.492 anche i posti letto, con 111 ospedali e 113 pronto soccorso ad aver chiuso i battenti, mentre al contrario il privato convenzionato, quello che spesso lascia al pubblico i malati più complessi e meno redditizi, ha raddoppiato, passando da 445 a 993 strutture che lavorano pagate dalle Regioni.
Puntare l’indice contro questa o quella maggioranza può servire a chi fa propaganda. Ma la realtà storica è un’altra. Quella di in un sistema di welfare dove è sempre stato più facile attingere ai bilanci della sanità, perché la spesa per le pensioni si può evitare che cresca ma non si può tagliare, così come quella assistenziale per disabili e fragili, visto che da noi funziona elargendo assegni anziché servizi come avviene nei Paesi del Nord Europa.
I tagli peggiori sono quelli avvenuti a cavallo della tempesta economico-finanziaria tra il 2010 e il 2019 e in quegli anni alla guida del Paese si sono succeduti nel tempo Berlusconi, Monti, Letta, Renzi, Gentiloni e Conte. Quindi chi è innocente scagli la prima pietra. E con il perpetuo definanziamento del nostro Servizio sanitario nazionale non ci si stupisca poi che le liste d’attesa arrivino anche a superare i 12 mesi per una tac o una mammografia, oppure se oltre l’80% delle apparecchiature diagnostiche è obsoleto e quindi soggetto ad andare in panne o se gli over 65 assistiti a domicilio non sono nemmeno il 3% contro quel 10% indicato come minimo sindacale dallo stesso ministero della Salute. Insomma, quella del Ssn che dà tutto gratis a tutti, come per tanto tempo ci si è vantati, è diventata una barzelletta. E non poteva che essere così, perché pretendere di avere il sistema più universalistico al mondo quando si spende meno di tutti è quanto meno anacronistico. Basti pensare che per riallinearci alla spesa degli altri paesi Ue, secondo l’ultimo rapporto del Crea-Sanità, occorrerebbero qualcosa come 50 miliardi.
Per recuperare il passo dell’Europa servirebbe quindi una crescita annua del finanziamento di 10 miliardi per 5 anni, più quanto necessario per garantire la stessa crescita degli altri Paesi europei presi a riferimento, ovvero altri 5 miliardi. Anche al netto della guerra e del caro energia, pura utopia. A meno che non si metta mano a serie politiche economiche di sostegno della crescita. Il ragionamento di Federico Spandonaro, economista sanitario dell’Università San Raffaele di Roma dei più accreditati, oltre che presidente del Crea, da questo punto di vista non fa una piega. «Dal duemila ad oggi la nostra sanità ha viaggiato a un ritmo di crescita della spesa nettamente inferiore agli altri Paesi Ue e questo ha comportato una costante crescita della spesa sanitaria privata, con conseguente riduzione del livello di equità del sistema di protezione». Il problema per Spandonaro non è tanto se si poteva o meno fare di più, «quanto il fatto che il Paese nel suo insieme non cresce, per via dell’enorme sommerso. Quindi bisognerebbe recuperare l’evasione e decidere quali settori possono dare un maggior contributo all’aumento del Pil. E uno di questi può essere a mio avviso proprio la sanità». Parole che cozzano con uno dei capitoli della Melonomics, quello delle sanatorie fiscali. Ben 12 quelle finite in manovra.
Che il futuro della sanità sia a tinte ancora più fosche degli anni passati del resto lo dicono i numeri della Def, il documento di programmazione economica del governo, che rispetto al Pil segna una caduta libera degli investimenti in sanità dal 7,4% del 2021 a meno del 6% nel 2025. Il ministro della Salute, Orazio Schillaci, da tempo dice che «il confronto bisogna farlo con le risorse effettive, e quelle crescono». Ma si dimentica di un dettaglio non da poco: secondo le elaborazioni dell’Osservatorio dei conti pubblici italiani della Cattolica, nel 2025 l’inflazione si sarà infatti mangiata 15 miliardi del fondo sanitario.
Così raddrizzare la barca diventa difficile se non impossibile. Tanto più se manca il motore che fa girare tutto, ossia il personale. «I medici stanno scappando, uno su tre ad aprile voleva lasciare, magari per andare in Paesi dove sono molto più pagati che da noi. Alla fine l’avranno vinta le assicurazioni, che è poi quanto di più iniquo possa accadere», profetizza il presidente dell’Ordine dei medici, Filippo Anelli.
Ma la fuga è generalizzata. I professionisti della salute sono infatti 25 mila in meno rispetto a dieci anni fa mentre la popolazione anziana è aumentata e così i malati cronici. I quali tra l’altro richiedono più territorio. Quello che si vorrebbe rafforzare con Case e Ospedali di comunità, tagliati di un terzo dal governo in sede di revisione del Pnrr, perché i costi per tirare su le strutture sono aumentati. Ma soprattutto perché mancano medici e infermieri. E quelli l’Europa non ce li paga. Dovremmo assumerli noi. Con quali soldi non si sa, visto che le tasse le si vogliono ridurre senza recuperare quei 100 miliardi l’anno non versati dagli evasori.