Vi presento Louis Fratino
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27 Ottobre 2024Si chiama Inappropriabili ma potrebbe anche chiamarsi «Inarchiviabili» il libro che Annalisa Sacchi ha dedicato a Relazioni, opere e lotte nelle arti performative in Italia (1959-1979) – Marsilio, pp. 288, euro 28,00. Un ventennio cruciale per la vita del nostro paese, anni di lotte, come ricorda chi un po’ c’è passato. Di conflitti anche aspri e di piccole e grandi rivoluzioni, tentate o riuscite. L’autunno caldo operaio, l’emergere della sinistra extraparlamentare, l’antipsichiatria di Basaglia, il referendum per il divorzio, la rivolta femminista… Vite e opere sono quelle di un gruppo di artisti operanti in ambiti diversi, ma ciò che più preme all’autrice sono le loro relazioni. Il loro intessersi non solo come percorsi biografici ma come sorgente stessa, nel profondo, delle pratiche artistiche.
All’inizio c’è un archivio che l’aspetta, a Lecce. Dove sono conservati, in quel momento ancora imballati nelle casse stipate in una delle sale del castello Carlo V, i materiali lasciati da Carmelo Bene. O forse, si potrebbe temere, lasciati lentamente a sbiadire, a marcire, a macchiarsi di umidità. Oggi quell’archivio è invece meravigliosamente sbocciato nel museo Castromediano che raccoglie la storia del Salento. Meglio vanno le cose con il vastissimo archivio conservato da Giuliano Scabia nella sua casa fiorentina, meticolosamente raccolto e catalogato.
Eppure tutti gli archivi deludono le aspettative rispetto alla documentazione puntuale delle opere, osserva Sacchi. Le esperienze della scena sperimentale tendono a consumarsi nell’atto del loro manifestarsi. E c’è chi, come la studiosa femminista Peggy Phelan negli anni novanta del secolo scorso, teorizza l’inarchiviabilità assoluta della performance. Il valore di quel consumarsi è che impedisce il suo trasformarsi in merce. Gli archivi riportano Sacchi ad anni che non ha vissuto direttamente. Ma a lei piace immaginarsi nella forma dello spettatore ritardatario, quello che manca l’evento ma in qualche modo se ne sente chiamato attraverso i resti e le memorie di altri. Che lì va a cercare, chiedendosi cosa conservano questi archivi eccessivi e difettivi della performance, come si possono mettere in risonanza. Forse seguendo il filo degli affetti, si dice. Ritrovando una logica della mescolanza in cui le tracce sono sparpagliate attorno ai resti di soggetti molteplici, impigliate in documenti privati, amorosi, contabili.
Ma una volta entrato in gioco, il nome di Carmelo Bene, o forse il suo personaggio, è difficile toglierselo d’intorno. Ci riporta immediatamente al 1959 della sua epifania sulla scena, con un Caligola di Albert Camus che è subito controverso. È giovanissimo l’artista salentino, ha ventidue anni, quando riesce ad avvicinare lo scrittore francese a Venezia, all’ingresso degli artisti della Fenice. Giovane e ancora sconosciuto. E tuttavia Camus gli concede, per giunta gratuitamente, i diritti di rappresentazione del testo. Ed è subito scandalo lo spettacolo che debutta al teatro delle Arti di Roma nel 1959 e segna convenzionalmente l’atto di nascita del nuovo teatro. E da lì le connessioni sembrano esplodere e moltiplicarsi.
Venezia è in quel momento una sorta di crogiolo del nuovo. La drammaturgia di Giuliano Scabia incrocia la scena di Carlo Quartucci alla Biennale del teatro. John Cage incontra Luigi Nono che esordisce sulla scena con Intolleranza 1960, ispirata dalla guerra di liberazione in Algeria. E attorno a loro si muovono scrittori, critici, intellettuali di varia formazione. Una foto conservata nell’archivio di Nono li mostra tutti seduti al lungo tavolo di un ristorante dopo la rappresentazione de La fabbrica illuminata, nel 1964. E c’è anche Rossana Rossanda, allora responsabile per la cultura del partito comunista, seduta accanto a Sartre.
Annalisa Sacchi insegna all’università Iuav di Venezia. Anni fa ha scritto un libro molto bello che partendo da una suggestione visiva de Las Meninas di Velázquez aveva intitolato Il posto del re: vuol dire il posto che nel dipinto si intuisce soltanto, grazie a un piccolo specchio appeso sul fondo, dove si intravedono due volti. Sono i regnanti di Spagna che guardano il pittore all’opera mentre si sporge dalla tela che sta dipingendo, Filippo IV e la moglie. Il posto, forse dovremmo dire la posizione, occupata nella scena contemporanea dal regista. Figura che se ne sta sul fondo, invisibile se non per un riflesso, ma determinante. Il volume è infatti dedicato alle estetiche della regia nel teatro contemporaneo. Identificate nelle figure esemplari di Jan Fabre, Romeo Castellucci e Thomas Ostermeier. Scelta quanto meno eccentrica, nell’escludere nomi più accreditati quali Giorgio Strehler o Luca Ronconi, rispetto ai canoni accademici. Per arrivare a concludere che quel posto, quella posizione, è anche quella occupata dallo spettatore. Con tutte le responsabilità etiche che ne derivano.
Inappropriabili andrebbe dunque ascritto al genere della saggistica accademica, e infatti c’è in calce a ogni pagina l’apparato di note che si richiede al succitato genere. Ma si può leggere anche come un bellissimo romanzo che attraversa le vite, tutte a loro volta eccezionali, di una schiera di artisti operanti in campi diversi che l’autrice collega nel segno della performatività. Ma uniti appunto da relazioni che sembrano svilupparsi l’una dall’altra, come anelli di una collana, ma sono piuttosto un magma nutrito dal calore di quel ventennio.
Succede così che il «teatro dell’ignoranza» praticato da Leo de Berardinis e Perla Peragallo incontri la macchina da presa sperimentale di Alberto Grifi che li aveva seguiti nella fuga a Marigliano, alla fine dei Sessanta. La memorabile parata dei due artisti nel paese dell’entroterra campano era diventata un film girato da Grifi, Compromesso storico a Marigliano, che poi è scomparso. Come a confermare l’inevitabile destino delle arti performative. Proprio Grifi è un po’ il pivot della situazione, negli anni a cavallo fra i due decenni. Intorno al quale ruotano anche la poesia sonora di Patrizia Vicinelli e la passione mirmecologica di Aldo Braibanti, la cui vicenda artistica è oscurata dalla condanna a nove anni di carcere, nel 1968, perché giudicato colpevole di plagio del suo compagno e convivente – non essendo punibile l’omosessualità il tribunale aveva dovuto far ricorso a un articolo del codice Rocco che mai aveva trovato applicazione in precedenza.
Anni di lotte, si diceva. Visibili e meno visibili. Due realtà incommensurabili, collocate su piani distanti, vi si contrapponevano. In basso una società che stava velocemente cambiando, anche attraverso le arti (il cinema, la musica, il teatro…); in alto un Potere più o meno nascosto, che a un certo momento, quando la spinta al cambiamento era diventata difficile da contenere, era passato alle stragi nelle banche, le piazze, i treni, le stazioni ferroviarie, per ricordare la sovranità limitata a cui era soggetto il paese nostro. Ma questo è un altro libro. L’epilogo di quello di Sacchi ci dice che la rivoluzione è finita e forse abbiamo vinto.