La manifestazione organizzata a Roma dal Pd è riuscita. Tiene il rapporto fiduciario tra il nuovo gruppo dirigente che fa capo a Elly Schlein e quel “popolo delle primarie” che ha consentito di ribaltare il risultato del voto degli iscritti. Sarebbe però un errore scambiare la piazza romana per un insieme rappresentativo dell’elettorato – nettamente più ampio – che il Pd deve attrarre per poter diventare forza trainante di un nuovo governo. Si tratta degli appartenenti ai gruppi più disagiati e al variegato mondo dei ceti medi. Per il momento – anche a giudicare dai sondaggi – non ci sono.
TEMI CONCRETI
La nuova segretaria ha deciso di puntare su tematiche concrete di grande rilevanza per il consenso e per i rapporti con le altre forze politiche (salario minimo, sanità, scuola, casa, ecc.). Questa scelta è stata ripresa e ribadita nel discorso sobrio ed efficace fatto alla manifestazione romana. Schlein ha presentato tali obiettivi – salario minimo, potenziamento dei servizi – come parti di una visione complessiva per il futuro del paese. Ma in realtà la loro sommatoria non fa ancora una visione complessiva, un progetto. Si tratta piuttosto di interventi specifici e separati gli uni dagli altri (in gergo, single-issues policies). Essi servono anzitutto per dare un segnale nuovo di attenzione all’elettorato politicizzato e disilluso, rifugiatosi nell’astensione, e naturalmente ai gruppi più disagiati che ne beneficerebbero più direttamente, per sottrarli alle sirene del populismo. Ma non riescono ancora a parlare al variegato mondo dei ceti medi, e rischiano di non essere realizzabili o di tradursi in aggravio di spesa.
PATTO PER LO SVILUPPO
Il motivo principale sembra legato al fatto che la giusta insistenza sul tema della redistribuzione (trascurato in passato dal Pd) non è strettamente ed esplicitamente declinato con quello di un nuovo patto per lo sviluppo. Una maggiore attenzione a questo aspetto potrebbe aiutare a vincere la diffidenza di quote rilevanti di elettorato di ceto medio più aperte al cambiamento.
Per costruire un ponte e aprire a un’alleanza con i ceti medi occorrerebbe anzitutto chiarire dove prendere le risorse per finanziare il rafforzamento dei servizi e la loro riforma in chiave universalistica, valorizzando anche la professionalità degli operatori e il merito rispetto ai privilegi particolaristici. In un paese con un debito pubblico come il nostro è però impossibile perseguire l’obiettivo di riqualificazione del welfare senza un contrasto serio ed efficace dell’evasione fiscale e un suo radicale riassetto interno che distribuisca più equamente il carico. Insomma, occorre progettare una redistribuzione sostenibile, capace di contrastare le forti disuguaglianze. Ma la sostenibilità dipende anche dallo sviluppo del sistema produttivo, largamente basato sulle piccole imprese e sul sommerso. La cui competitività deve molto all’evasione e all’elusione fiscale, alla de-regolamentazione del mercato del lavoro con la crescita del lavoro precario e sottopagato, e ai bassi salari.
Occorre allora puntare sull’innovazione, la ricerca, il capitale umano, anche attraverso una politica dell’innovazione – di cui per ora il Pd parla troppo poco – per spostarsi verso la via alta della crescita con l’innalzamento della produttività. Questa strada da un lato ridurrebbe le esigenze della redistribuzione e dall’altro la renderebbe sostenibile attraverso una maggiore tassazione più equa e progressiva. Una redistribuzione senza sviluppo comprometterebbe invece l’obiettivo di contrastare efficacemente le disuguaglianze.