Ma ora i nodi, cioè certe scelte, presentano il conto. A cominciare da quella di non sfiorare il totem dei due mandati. “Beppe Grillo non vuole toccarlo” ripetono come eterna giustificazione dai piani alti. Ma chissà se e come il Garante avrebbe potuto dire di no alla candidatura di due nomi storici – e membri del comitato di garanzia, l’unico organo che conti davvero qualcosa, da lui voluto – come Roberto Fico e Virginia Raggi. Senza dimenticare che in panchina sono rimasti altri pretoriani come Paola Taverna, Alfonso Bonafede e Stefano Buffagni. E che Alessandro Di Battista, il figliol prodigo a cui negarono il rientro a casa per le Politiche, è rimasto a distanza con il suo notevole potenziale di voti. Risultato: liste fragili, zeppe di esterni sovente semi-sconosciuti, oltretutto visti con parsimonia in tv.
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Così è naturale che dalle macerie del post urne risalga la richiesta di sciogliere l’ultima regola, nel Movimento che le ha superate o diluite tutte. Forse la prima delle urgenze, perché la sensazione è che tre o quattro parlamentari siano già pronti a traslocare altrove è più che diffusa. Ed è un problema di forma ma pure di sostanza, perché meno parlamentari significa anche meno restituzioni e quindi meno risorse, per un movimento – o simil-partito – che non ha più rossori nell’adoperare e chiedere fondi pubblici (vedi la richiesta del 2 per mille, invocata a suo tempo pure dagli iscritti).
Ma oltre a guardarsi in casa, Conte deve già decidere che fare con il Pd, che voleva trattare da pari a pari e ora è lontano un oceano lungo 14 punti. Ed è già questo il peggiore dei bivi. “Se scegliamo di starcene da soli, rischiamo di diventare un partitino, irrilevante, ma nel centrosinistra potremmo ridurci a fare la ruota di scorta” si macera un maggiorente. E ovviamente a questo dilemma si intreccia quello sulla rotta politica, e quindi sull’identità di un Movimento a cui il Pd di Enrico Letta aveva lasciato una prateria a sinistra, e ora invece vede certe parole d’ordine assediate o sottratte da Schlein (dal salario minimo alla riduzione dell’orario di lavoro). Mentre nel cosiddetto “centro”, Forza Italia tiene ed è un altro piccolo problema per l’ex premier.
Ora deve trovare un punto di equilibrio, l’avvocato che la sua prima vita l’ha trascorsa a mediare ai tavoli degli arbitrati. E forse stavolta non dovrà farlo da solo. Perché un’altra istanza che riaffiora è quella di una “vera segreteria”. Diversa dai cinque vicepresidenti – secondo lo stesso Conte talvolta troppo passivi, raccontano – certamente lontanissima dal Consiglio nazionale, organo infarcito di eletti e referenti vari che il leader non convoca praticamente mai.
Urge collegialità, si dicono i colonnelli che a Conte non vogliono rinunciare, ma che lo vorrebbero meno solitario nelle scelte, insomma meno autocrate. Talvolta troppo sicuro di sé, sussurrano. “Giuseppe ha sottovalutato Elly Schlein, credeva che le correnti del Pd l’avrebbero intrappolata, e invece…”, raccontano. E invece ora lei guida il presunto centrosinistra, e chi vuole seguirla è pregato di chiedere permesso.
Detto questo, c’è un Movimento che paga anche vecchie faide. “A Napoli siamo il primo partito, eppure per le spaccature tra le diverse fazioni locali non siamo riusciti a eleggere neppure un napoletano” fanno notare. Ruggini riaffiorate anche a Roma come in Sicilia. E questa non può certo essere solo colpa di Conte. L’avvocato che questa volta deve difendere innanzitutto se stesso.