MARCO BRESOLIN
È la settimana italiana della competitività europea. Con Enrico Letta che domani porterà al tavolo dei leader Ue le 147 pagine rapporto sul mercato unico e Mario Draghi che ieri ha svelato altri elementi del suo report sulla competitività dell’economia europea, la cui finalizzazione è attesa per la fine di giugno. Due lavori che vengono definiti “complementari” e che secondo Ursula von der Leyen «indicano la via per il futuro». Più pragmatica quella proposta da Letta, che ha messo sul tavolo alcuni correttivi per rimuovere gli squilibri interni tra gli Stati membri. Decisamente più ambiziosa quella suggerita da Draghi, che guarda allo scenario globale e chiede all’Ue «un cambiamento radicale» per rispondere alle sfide odierne e tenere testa a Stati Uniti e Cina. Resta da capire quanti, nell’Europa dei piccoli passi e delle piccole patrie, siano realmente pronti e disposti ad a imbarcarsi in un percorso rivoluzionario. «Draghi mi piace, è una brava persona» lo ha elogiato ieri Viktor Orban rispondendo a precisa domanda, mentre il suo portavoce avvertiva che «le voci sovraniste non possono essere silenziate».
Draghi ha sottolineato la necessità di “ridefinire” l’Unione con un’ambizione “non inferiore” a quella dei padri fondatori, ma lui stesso ha messo subito le mani avanti sulla possibilità di applicare tale radicalità anche a quelle che sono le colonne portanti dell’Ue: la sua soluzione non passa per una revisione dei Trattati perché per arrivarci serve tempo, ma «data l’urgenza della sfida che ci troviamo ad affrontare, non possiamo permetterci il lusso di ritardare le risposte a tutte queste importante domande». Secondo l’ex premier è meglio muoversi all’interno delle regole attuali, anche se in molti casi è l’ostacolo del processo decisionale all’unanimità che rallenta il passo dell’Ue.
Nel corso del suo intervento alla conferenza sul pilastro europeo dei diritti sociali organizzata dalla presidenza belga a La Hulpe, poco fuori Bruxelles, Draghi non ha affrontato quest’ultimo nodo. Ma in un passaggio ha fatto riferimento a un’altra questione che ciclicamente ritorna nei dibattiti sul futuro dell’Ue: la possibilità di ridisegnare un’Unione e più velocità. L’ex presidente della Bce non è parso particolarmente entusiasta, segnalando che «di norma, credo che la coesione politica della nostra Unione richieda di agire insieme, possibilmente sempre».
Potrebbero fare eccezione alcuni “casi specifici”, come il completamento dell’unione dei mercati di capitali, una soluzione sulla quale sta spingendo molto la Francia di Emmanuel Macron per cercare di sbloccare i negoziati tra i ministri delle Finanze. Draghi ne ha parlato sottolineando la necessità di trovare le risorse adeguate per finanziare determinati “beni pubblici”. Ha ribadito che bisogna «utilizzare al meglio la capacità di prestito congiunta dell’Ue (leggasi debito comune, ndr) soprattutto in alcuni settori, come la Difesa», ma ha anche riconosciuto che «la maggior parte del gap di investimenti dovrà essere colmata da investimenti privati». In Europa sono «molto elevati», ma sono «per lo più incanalati nei depositi bancari e non finiscono per finanziare la crescita come potrebbero in un mercato dei capitali più ampio». Più in generale, Draghi ha auspicato «un’Ue adatta al mondo di oggi e di domani» perché «la nostra organizzazione, il processo decisionale e i finanziamenti sono progettati per il mondo di ieri». Un mondo cioè «pre-Covid, pre-Ucraina, pre-conflagrazione in Medio Oriente» e precedente al «ritorno delle rivalità tra grandi potenze». L’errore dell’Europa, secondo l’ex presidente del Consiglio è di aver avuto «un focus sbagliato», guardando troppo al proprio interno e troppo poco verso l’esterno: «Non abbiamo prestato suffciente attenzione alla nostra competitività all’estero come una seria questione politica». Nel frattempo, però, «il mondo sta cambiando rapidamente e ci ha colto di sorpresa» anche perché alcuni attori «non rispettano più le regole».
La Cina, per esempio, «mira a catturare e internalizzare tutte le parti della catena di approvvigionamento di tecnologie verdi e avanzate e sta garantendo l’accesso alle risorse necessarie». Gli Stati Uniti, invece, «stanno usando una politica industriale su larga scala per attrarre capacità manifatturiere nazionali di alto valore all’interno dei propri confini, compresa quella delle aziende europee, mentre utilizzano il protezionismo per escludere i concorrenti e dispiegano il proprio potere geopolitico per riorientare e proteggere catene di approvvigionamento».
In tutto questo l’Europa «non ha mai avuto una strategia industriale equivalente a livello Ue» e anche «l’ambiziosa agenda climatica dev’essere combinata con un piano per garantire le nostre catene di approvvigionamento». Altrimenti, ha fatto capire, l’Europa produrrà auto elettriche ma senza avere le batterie e le infrastrutture per la loro ricarica.