Così, la guerra torna di continuo a occupare le prime pagine e ad alimentare le nostre paure e, con esse, la nostra più impellente aspirazione: che tutto finisca al più presto e la vita torni come prima. È una reazione tanto comprensibile quanto naturale: l’intento di controllare il nostro destino fa parte del più intimo istinto di sopravvivenza umano. Non possiamo tollerare di vivere nell’incertezza, dove gli eventi vanno al di là della nostra immaginazione. Se persino le pandemie prima o poi finiscono, perché non possono farlo anche queste guerre?
Rispondere a questa domanda è un’impresa che ci conduce al limite della schizofrenia: da un lato, sezioniamo e studiamo attentamente le analisi degli esperti, alla ricerca di un qualche appiglio di razionalità e comprensione; dall’altro, la nostra angoscia ci spinge a rigettare e ignorare ogni conclusione drammatica che ci viene presentata.
Come sempre, il difficile compito di conciliare il sano realismo con l’inevitabile reazione emotiva spetterebbe alla politica. Salvo che anche questa sembra soffrire della medesima smania di soluzioni immediate e definitive. Un desiderio che si manifesta in modi diversi, ad esempio evocando l’avvento di circostanze risolutive o figure provvidenziali. Un “messia” che può assumere il volto persino del diritto internazionale: speranza che, se presa da sola, rischia di risultare piuttosto velleitaria, considerando che il suo rispetto è oggi ai minimi storici. Ci sono poi coloro che cercano la salvezza nell’ideologia, nel nazionalismo, nella religione o in qualsiasi forma di onnipotenza che prometta la vittoria totale e l’annichilimento del nemico. Così come esiste una politica, altrettanto illusoria, che si affida a un pacifismo di principio, convinta che per far tacere i cannoni basti brandire il valore della pace.
Sono soluzioni poco concrete per le guerre del XXI secolo, che rischierebbero di continuare anche se una parte prevalesse sul campo o se assistessimo all’improbabile scenario in cui i popoli rinunciassero di colpo all’uso delle armi. La politica contemporanea dovrebbe allora ricordare più che mai che la radice della parola “pace” è la stessa di “patto”. E la pace, in un tempo caotico come il nostro, ha appunto bisogno di nuovi trattati che ne riflettano la complessità: viviamo in un mondo così fluido e articolato che è illusorio pensare che un accordo possa essere valido in eterno o che basti la firma di due superpotenze per garantirne l’efficacia, come accadeva all’epoca della Guerra Fredda. Oggi dobbiamo fare i conti con una pluralità di attori e interessi mai, prima d’ora, così multiforme, in cui i rapporti di forza e le alleanze cambiano molto più rapidamente rispetto al passato. Patti di questo tipo devono essere sottoposti a continue verifiche e manutenzioni e, soprattutto, non possono derivare dall’imposizione unilaterale di una volontà dopo una vittoria schiacciante. La pace più duratura richiede, infatti, che persino chi trionfa sul campo di battaglia faccia concessioni.
La storia ha dimostrato che è possibile: l’Unione Europea è nata come un organismo multilaterale, impegnato a rivedere periodicamente i propri accordi in una logica di compromesso, anche se oggi ciò appare sempre più raro. Ma tale razionalità è stata il frutto di un dolore immenso: decine di milioni di morti e un continente diviso e ridotto in macerie. La paura che si ripeta una tale apocalisse condiziona ancora le nostre scelte, ma c’è una differenza sostanziale tra il timore della perdita e il dolore di chi l’ha subita. Oggi, salvo per pochi sopravvissuti, quella sofferenza non fa più parte della nostra memoria diretta e la paura da sola non ha la stessa forza persuasiva. E così, ancora una volta, ragione e sentimento rischiano di condurci in un vicolo cieco, perché pensare che sia necessario vivere un immenso male per costruire un mondo migliore è già, di per sé, una sconfitta inaccettabile.
QUELL’ODIO CHE CONTINUA A VIVERE IN MEZZO A NOI
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