Berlinde
De Bruyckere
di Lara Crinò
VENEZIA
Che cos’è una chiesa?
Un teatro del sacro?
Uno spazio dello spirito anche al di là del proprio credo? Un luogo dove porre domande sulla nostra comune umanità? Tutte queste cose insieme, vien da pensare entrando nell’Abbazia benedettina di San Giorgio Maggiore in questa primavera piovosa e grigia. Sotto gli splendidi archi palladiani della Chiesa che si specchia in Laguna, le sculture materiche di Berlinde De Bruyckere, il metallo e la cera dei suoi angeli fantasma, aprono una conversazione originale: tra gli eventi collaterali alla 60esima Biennale d’Arte, il suo progetto City of Refuge III,realizzato insieme alla Benedicti Claustra Onlus, ramo no profit della comunità benedettina, e con il suo direttore Carmelo A.
Grasso (curatore con Ory Dessau e Peter Buggenhout), spicca per profondità. Si sbarca sull’isola, evarcato il portale della chiesa si entra nel mondo di Berlinde.
Fiamminga, con studio a Gand, 59 anni, ha esposto in tutti i grandi musei nordeuropei e ha rappresentato il Belgio alla Biennale del 2013.
Cosa rappresenta per lei questo ritorno a Venezia?
«L’esperienza del Padiglione del Belgio in quella Biennale, con la curatela e la collaborazione di J.M.
Coetzee, fu su una scala diversa. La struttura è bellissima, quasi un museo, e volevo che il visitatore avesse un’esperienza fisica: immaginai uno spazio buio, con un’apertura sul soffitto affinché la luce colpisse il mio lavoro, una sorta di grande albero con torso e i rami, come un corpo. Per l’opera, studiai l’iconografia di San Sebastiano, onnipresente in città, e volli come assorbire i colori e l’umidità di Venezia. Quello di San Giorgio Maggiore è un progetto molto diverso, perché la chiesa è diPalladio, e la pala d’altare è di Tintoretto. Un’architettura così importante non puoi trattarla come un luogo espositivo, devi entrare in un dialogo. Ho creato nuove opere per la chiesa, il coro, la sacrestia, l’abbazia, un progetto articolato. Di una cosa ero sicura.
Non volevo fare uno statement ».
Ossia?
«Non mi interessava, come hanno fatto altri prima di me, piazzare le mie opere sotto la cupola: c’è qualcosa di molto maschile nel mettere un oggetto al centro dello spazio, al centro dell’attenzione, come dimenticando tutto il resto».
Cercava un’armonia?
«Volevo che l’accesso al centro della chiesa restasse libero, in modo da abbracciarla in tutta la sua lunghezza. Ho creato tre gruppi di opere in punti diversi.
All’entrata si incontra il primoArcangelo, su un alto piedistallo accompagnato da un grande specchio. Solo arrivandoci davantipuoi scorgere da lì un altro Arcangelo, e l’ultimo in fondo.
L’idea dello specchio mi è venuta pensando di poter riflettere così l’architettura della chiesa, ma anche perché permette di vedere ciò che di solito è nascosto. Ho cercato di creare una connessione, delle opere tra loro e delle opere con l’impianto architettonico».
Come nascono le opere?
«Sono stata invitata dai monaci dell’Abbazia nella consapevolezza che il rapporto con il cattolicesimo nella storia dell’arte è uno dei livelli del mio lavoro. Sono cresciuta in un’istituzione religiosa: conosco le storie, i significati. E poiché San Giorgio Maggiore è una chiesa dove le persone vanno per pregare, non intendevo agire in contrasto con la preghiera. Cercavo qualcosa che si facesse leggere da chi è religioso e da chi non lo è. Il tema dell’arcangelo si ispira a un quadro di Luca Giordano, in cui il corpo di Cristo è sostenuto da un angelodalle ali scure e dalle mani fragili.
Ho scoperto quella tela durante la pandemia; mi ha ricordato ciò che accadeva negli ospedali, dove le persone erano sole, accudite solo dagli infermieri e dai medici. Mi ha fatto riflettere sullo statuto degli angeli: creature misteriose, sfuggenti, liminali tra noi e il cielo.
Così ho cominciato a lavorarci su, e per San Giorgio Maggiore ho creato degli Arcangeli molto grandi; anche il piedistallo non è un classico piedistallo in pietra o legno, ma è una parte dell’opera, ha una sua energia».
I suoi Arcangeli hanno una qualità fantasmagorica, sono quasi dei fantasmi.
«Sono creature che non puoi davvero afferrare. Così come gli edifici di Venezia nel riflettersi nell’acqua sembrano disfarsi e cadere in pezzi, così è per lo statuto dell’angelo: non hanno più un unico significato come è accaduto per secoli. E tuttavia oggi, sia che siamo ancora religiosi, sia che non lo siamo più, continuiamo ad avere bisogno del sacro, e di qualche forma di rituale. Dell’educazione cattolica che ho ricevuto, ho conservato l’indicazione di cercare di essere un buon essere umano, rispettare gli altri e aiutarli. Sono insegnamenti per cercare di rendere utile la propria vita».
Che rapporto ha instaurato con la comunità benedettina?
«Ho mangiato spesso con i monaci nel refettorio il mio pranzo, li ho conosciuti. Hanno una gloriosa tradizione di commissioni artistiche, furono loro a chiedere a Palladio di costruire per Dio una casa meravigliosa. E continuano a credere nell’arte, nell’idea cheabbia un potere. Non mi hanno chiesto se io sia ancora credente e praticante, hanno solo avuto fiducia in ciò che faccio».
Nel coro, dove sembra di vedere riuniti i benedettini del passato, lei ha posto il suo libro.
«È una sorta di tradizione quella di chiedere un manoscritto d’artista a chi viene invitato a esporre nella chiesa. Alcuni hanno adornato il proprio con disegni. Io ho fatto alcuni collage per l’abbazia, ma il disegno non è il mio mezzo. Così ho usato i miei materiali, la cera, i peli animali e una carta blu, antica, che era nell’abbazia. Il mio libro non si apre, per via della cera, e anche questo rimanda al fatto che non siamo più in grado di leggere tutti i significati della tradizione, né i segreti e le preghiere che la chiesa racchiude. Del resto io vivo a Gand, vicino alPolittico dell’Agnello Mistico di Jan van Eyck. So che Dio è un mistero».