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1 Dicembre 2022L’illusione verde
1 Dicembre 2022Per capire cos’è l’eco-capitalismo basta andare a Ecomondo. La «fiera dell’innovazione tecnologica e dell’economia circolare e verde» si tiene a Rimini da 25 anni, ed è l’appuntamento fondamentale per migliaia e migliaia di operatori che si occupano in maniera ampia di ambiente. Più precisamente Ecomondo «unisce in un’unica piattaforma tutti i settori dell’economia circolare: dal recupero di materia ed energia allo sviluppo sostenibile». Bastano i numeri recitati a più riprese dall’organizzazione a rendere in maniera evidente la quantità di interessi in gioco: «1.400 brand espositori, che occupano tutti i 130mila metri quadri della fiera, 160 eventi complessivi, oltre 600 top buyers provenienti da 90 Paesi». Abbiamo visitato Ecomondo, sia quest’anno che in alcune edizioni precedenti. E ogni volta se ne esce in modo frastornato.
Quest’evento è noto soltanto agli addetti ai lavori, ma nella riviera romagnola, tra un meeting e l’altro, si decide il futuro dell’ambiente. Nel nome del profitto e (spesso) del greenwashing. In un’intervista a Il Sole 24 ore risalente al 2019, l’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi disse che «i rifiuti sono il petrolio del futuro». Era una sentenza così efficace che il quotidiano di Confindustria la pose a titolo del pezzo. Oggi come allora quella frase sintetizza perfettamente il senso profondo di Ecomondo: un’economia circolare come riproposizione del pensiero fossile e lineare, ma con sostanze e materiali diversi. Una continuità che invece, a nostro avviso, va sovvertita attraverso una riappropriazione dal basso dell’economia circolare. Affinché il rovesciamento del paradigma estrattivista sia nelle pratiche e non solo negli annunci.
Le similitudini con la Cop27
È una fiera, si potrebbe obiettare. Ed è vero: nonostante la notevole mole di incontri formativi e di momenti informativi, le attenzioni restano concentrate sul business, uguale a quello del capitalismo fossile ma con una tinteggiatura di verde.
Nei giorni della 25esima edizione di Ecomondo si svolgeva in contemporanea la Cop27, la Conferenza internazionale sul clima dell’Onu. Può sembrare una forzatura ma i punti di contatto tra le due manifestazioni appaiono evidenti. A partire dalle contraddizioni tra i messaggi salvifici per il pianeta e le pratiche poco sostenibili. Chi interviene per salvare il mondo dalle emissioni nelle varie Conferenze sul clima dell’Onu? Prevalentemente uomini bianchi di Stati ricchi che volano in un diverso paese ogni anno con i loro jet privati. Chi vuole salvare l’Italia dall’economia lineare? Prevalentemente uomini bianchi per cui la logica del profitto va spostata dalle risorse naturali alle materie «prime seconde». Se la fiera di Rimini è un insostenibile intruglio di aziendalismo yuppie e messaggi ecologici, in cui domina l’ossessione delle relazioni, nei racconti dei media e delle associazioni ambientaliste le Cop dell’Onu sono un’estenuante ricerca del compromesso e una mediazione continua tra i vari interessi in gioco, dove nessuno (soprattutto i paesi ricchi) vuole rinunciare a niente.
Se Ecomondo è un flusso perenne dove si corre costantemente da uno stand a un altro, dove agli appelli a cambiare il modello di sviluppo si contrappongono complimenti e appelli al governo in carica, le Cop sono un analogo flusso dove si corre costantemente da un incontro all’altro, dove al profluvio di dichiarazioni corroboranti sulla necessità di cambiare rotta fa da contraltare l’esiguità degli impegni assunti.
Le contraddizioni della fiera
Nella fiera di Rimini non esistono i dispenser per l’acqua e la sola possibilità per dissetarsi è acquistare una bottiglietta di plastica all’esoso costo di due euro. A Ecomondo anche la frutta è contenuta in un imballaggio, perfino il grana padano, che pure viene prodotto in zone vicine, si trova già grattugiato e dentro una bustina. A Ecomondo, incredibile a dirsi, la raccolta differenziata è utopia: ci sono pochissimi contenitori, solo nelle zone comuni, non vengono forniti i cestini a nessuno stand e così non sorprende che in un contesto del genere, sempre di corsa e orientato unicamente al business, neppure nei pochissimi contenitori esistenti ci sia tempo e attenzione per separare adeguatamente i rifiuti.
La lista delle contraddizioni potrebbe andare avanti a lungo: qui ricordiamo i pochi mezzi pubblici a disposizione, soltanto un treno (strapieno) e un paio di linee di autobus anche se la maggioranza delle persone si sposta in auto, ingolfando terribilmente il traffico della città, con veicoli che molto spesso hanno al massimo due persone a veicolo. Il retaggio yuppie o dell’edonismo reaganiano, come direbbe Roberto D’Agostino, è palese nel ruolo riservato alle donne. In fortissima minoranza rispetto ai maschi bianchi cisgender, le poche donne presenti hanno (quasi) unicamente una funzione d’arredo. Molte di esse sono vere e proprie hostess, addette ad attirare l’attenzione presso il proprio stand di riferimento.
Tutto si paga, a Ecomondo (tranne il cesso, almeno quello). Ma tanto che importa, sia benedetta la carta aziendale, sono le imprese a sobbarcarsi i costi esorbitanti della fiera dove per un pranzo alla mensa – costituito da una cotoletta e delle patate – a chi scrive è capitato di dover scucire 19 euro. Se questa è la sostenibilità siamo insostenibili. Di più: per l’eco-capitalismo che fa sfoggio di sé a Ecomondo la sostenibilità è un costo da scaricare sulle persone. Il senso finale di una fiera del genere è proprio quello di farsi notare, accrescere la rete di contatti e stabilire nuove partnership. Di fronte a ciò, a che serve la coerenza?
Il monopolio della circolarità
Che Ecomondo sia una fiera delle illusioni – bella, colorata, sorridente – è ormai chiaro. Scendendo ancora più a fondo nella contraddizione, è necessario allargare lo sguardo sullo scenario generale che riguarda l’ecologia, l’ambiente e la transizione in Italia: da un lato abbiamo il ministero dell’Ambiente (sbeffeggiato in questa edizione per i continui cambi di nome) e poi le sue diramazioni più tecniche come l’Albo Gestori Ambientali, l’Istituto Superiore di Protezione Ambientale (Ispra) e alcune delle Agenzie Regionali di Protezione Ambientali (Arpa) più prolifiche.
Dall’altro ci sono letteralmente tutti i player dell’industria green (o black ritinteggiata di green) che coprono all’incirca tutti i settori economici ambientali: rifiuti, bonifiche, monitoraggi delle emissioni e, da qualche anno, una nuova gigantesca sezione chiamata Key Energy, che promuove le tecnologie di produzione di energia rinnovabile in tutte le sue forme. In mezzo troviamo una pletora di soggettività che compongono le filiere ambientali: professionisti, consulenti, tecnici, associazioni no profit.
Chiunque si occupi di ambiente ha la necessità di ritrovarsi là, perché l’idea di base di avere uno spazio di confronto, aggiornamento, scambio delle conoscenze e dei saperi anche normativi, è condivisibile e auspicabile.
Ma perché proprio a Rimini? Perché non esiste un altro spazio di riferimento così ampio e variegato per discutere sulla transizione ecologica in Italia. Si tratta però di uno spazio in cui è indistinguibile l’intreccio tra i momenti di produzione di una cultura condivisa dell’ambiente (seminari, dibattiti), che ci sono e restano interessanti, e il commercio spicciolo, che si traduce nella modalità spudorata già descritta.
Il contesto di cui parliamo riflette plasticamente la narrazione liberista sull’ambiente: ovunque gli obiettivi di transizione sono raccontati in termini di aumento della competitività, di supporto alle imprese, di produttivismo a tutti i costi, di stakeholders e di responsabilità estesa del produttore come strategia di sostenibilità.
Basti pensare al pacchetto «economia circolare» dell’Unione europea e al suo relativo recepimento italiano con la riforma della parte IV del Testo Unico Ambientale (relativa alla gestione dei rifiuti ed alle bonifiche). Per la prima volta, nel 2020, si inserisce nel testo normativo l’espressione «… e nel rispetto della competitività».
Ma proprio per questo sarebbe necessario rifiutare l’egemonia di questo spazio e chiedere alle istituzioni e ai soggetti liberi dall’interesse del profitto di costruire degli appuntamenti seri, scientifici, accademici, ampi e critici. Degli appuntamenti capaci di includere anche i grandi assenti dalla discussione a Ecomondo: gli esponenti delle teorie della decrescita, ad esempio, e le nuove realtà ambientali (dai Fridays for Future a Extinction Rebellion a Ecologia Politica), che potrebbero portare una visione più conflittuale rispetto alle storiche associazioni ambientaliste che hanno scelto da anni di stare a Ecomondo accettando le regole del gioco. Un’altra clamorosa assenza è quella dei lavoratori e delle lavoratrici di tutte le filiere: assenza importante specie perché al contempo a Ecomondo proliferano start-up «usa e getta», realtà che nascono non appena fiutano il business per poi spostarsi, o morire, a ogni nuova tendenza. Manca la Rete Nazionale degli operatori e delle operatrici dell’Usato (Rete Onu), mancano i sindacati, mancano i comitati territoriali, ecc.Soggetti che per il solo fatto di esserci metterebbero in discussione assunti che sembrano intoccabili: il mercato che assume il compito di traghettarci verso un futuro radioso di sostenibilità e di riduzione degli impatti ambientali della produzione. Soggetti che farebbero da contrappeso ai veri protagonisti della fiera: Confindustria, Utilitalia, Conai dettano la linea, organizzano seminari e convegni ai cui tavoli siedono coloro che gestiscono i fondi del Pnrr, che devono fare i controlli agli impianti o che svolgono le valutazioni ambientali.
C’è un’evidente mancanza di uno spazio che dia voce a questi soggetti, che gli fornisca strumenti, che li faccia dialogare con gli enti pubblici e le università. Seppur di recente definizione, l’economia circolare sembra già essere indirizzata sulle stesse modalità capitalistiche di sfruttamento dell’economia lineare, alla quale teoricamente si contrappone. Cambiarne la rotta è ancora possibile ma va costruita innanzitutto una nuova piattaforma di rivendicazione. Altro che Ecomondo, qui serve un nuovo mondo.
*Andrea Turco, giornalista siciliano, scrive di ambiente e temi sociali. Giulia Di Martino, architetta, attivista, si occupa di progettazione e valutazione ambientale.