di Sergio Risaliti
La funzione dei musei, il loro destino, varia di stagione in stagione. Da luoghi di mera conservazione sono passati ad essere centri di produzione culturale, con l’offerta di progetti espositivi e di attività di mediazione sempre più intensivi e innovativi, fino poi a diventare negli ultimi decenni spazi di intrattenimento, dove l’esperienza contemplativa e conoscitiva è stata sostituita velocemente da quella ludica.
Difficilmente possiamo sottrarci a questi cambiamenti, Pierre Bourdieu, sociologo e autore di L’amour de l’art, ne aveva spiegate le ragioni. Alla fine l’entertainment si è imposto con le sue regole, i suoi scopi, le sue obbligazioni finanziarie, che sono poi quelle del massimo consumo e di un sempre maggiore risultato in termini di partecipazione e quindi di bigliettazione. Un intreccio positivo e negativo tra democrazia culturale e capitalismo, ormai globale e mediale. Ogni giorno infatti leggiamo di record di visitatori, di tagliandi staccati, e si usano tutti i mezzi e tutte le strategie comunicative per superare la concorrenza. Non essendo più sufficiente la capacità attrattiva di una collezione o di una mostra, di un artista o di certe opere, si ricorre a ogni genere di espediente per attrarre quote sempre maggiori di utenti. Il marketing culturale ha preso il sopravvento sulla progettazione artistica e scientifica, e i parametri di valutazione sono dettati dai follower. E allora si dorme nei musei, si fa yoga nei musei, si organizzano mercatini e sfilate, si utilizzano le sale per assistere a eventi sportivi di rilievo, si accendono schermi per seguire festival musicali nazional-popolari come il Festival di Sanremo e altro ancora. Per non parlare della dittatura degli influencer, ambasciatori culturali in auge. Di fatto ricorriamo a tutto questo per incrementare la partecipazione che non viene più garantita dalla presenza dell’opera d’arte stessa. Un’opera di Cecily Brown, al Museo Novecento, o una di Diego Marcon, al Museo Pecci, sembrano non soddisfare nella loro autosufficienza poetica e formale.
Serve altro. Il tempo epifanico è superato da quello mediatico e ludico. A questo punto si è perso qualcosa di importante per strada: non riusciamo più a goderci l’esperienza contemplativa dell’arte, che richiede tempo e meditazione in solitudine, anche perché troppo faticosa per utenti educati a sfogliare e scartare rapidamente le immagini su Instagram.
L’opera, o la mostra, deve essere loquace, immersiva, narrativa, inclusiva e perfino instgrammabile. Perché e come sia avvenuto il passaggio da una civiltà della qualità a quella della quantità, è tema affrontato da René Guénon in un suo celebre saggio. Si tratta di una profonda mutazione antropologica, sociale ed economica, nata con la supremazia della civiltà dei consumi a trazione capitalistica, che ha inciso sull’essenza stessa della vita interiore e dell’arte. Di conseguenza anche i musei stanno cambiando natura e pelle, soggetti come sono alle leggi del mercato e alle inesorabili innovazioni tecnologiche. Infatti i consigli di amministrazione pretendono di norma risultati numerici significativi, obbligati a giustificare la spesa esaltando ricadute nell’indotto sempre più importanti. Politici e amministratori pubblici si adeguano, nella maggior parte dei casi, al trend e chiedono altrettanto. Se calano i visitatori occorre velocemente inventarsi un nuovo evento, possibilmente spettacolare, ludico e inclusivo.
Quando la valutazione della funzione spirituale e di sviluppo cognitivo di un museo viene condannata alla sua rendita economica, il destino di un progetto artistico appare segnato. E lo sarà ancora di più nel futuro, quando, a dettare legge, non saranno più solo gli algoritmi ma i nuovi mondi dell’intelligenza artificiale. In questo scenario i musei, a partire da quelli pubblici, come quelli statali e civici, dovranno avere alle spalle una visione politica sempre più resiliente e illuminata in grado di sostenere la pressione di queste forze e dinamiche di mercato. Sta infatti alla politica sostenere conoscenza e amore dell’arte, investendo nel settore, non in base alla mera quantificazione di spese e ricavi, ma di salute e crescita cognitiva e creativa dei cittadini e delle comunità.
Prendiamoci il lusso di rallentare.
Questa non è utopia. Altrimenti saremo costretti a chiedere alle opere di cantare per iRicchi e Poveri.
L’autore è direttore del Museo Novecento