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23 Ottobre 2022di Stefano Bucci
L’idea è quella di un museo contemporaneo, un museo del XXI secolo. E l’idea potrebbe apparire strana se applicata al Museo delle Civiltà di Roma che mercoledì 26 ottobre comincia a prendere forma definitiva con una prima, parziale riapertura nella sua veste rinnovata (la metamorfosi totale dovrebbe terminare in quattro anni): quella che assemblerà le collezioni di cinque musei (Nazionale preistorico etnografico «Luigi Pigorini», Nazionale delle arti e tradizioni popolari, Nazionale dell’Alto Medioevo, Nazionale d’arte orientale «Giuseppe Tucci» , ex Museo Coloniale) più quelle di geo-paleontologia e lito-mineralogia dell’Ispra (l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale).
Andrea Viliani (1973), da gennaio direttore del museo, ha già guidato con successo (dal 2009 al 2013) l’universo contemporaneo del Madre di Napoli, oltre ad essere stato curatore al Mambo di Bologna e al Castello di Rivoli. Anche per questo la «svolta» del Museo delle Civiltà lo vede assolutamente convinto: «Oggi per fare un’azione di cultura contemporanea — spiega a “la Lettura” — bisogna andare alle radici, partendo dal patrimonio di un museo come questo per capire che cosa vogliano dire davvero migrazione, genocidio, rigenerazione. Vogliamo provare a connettere le nostre collezioni all’attualità della crisi climatica, della possibile fine dell’Antropocene, delle disuguaglianze e della decolonizzazione».
Ottantamila metri quadrati (con le facciate ancora in buona parte coperte dalle impalcature). Oltre due milioni di oggetti: il «Cranio Guattari», le piroghe dal sito della Marmotta, i gioielli di piume, i burattini di strada. E l’esempio, valido per tutti i musei etnografici di nuova generazione, del Quai Branly di Parigi, con la sua media di un milione e mezzo di visitatori all’anno. Lungo questi assi si dovrà muovere il Museo delle Civiltà, un museo che — secondo Viliani — Pier Paolo Pasolini (che oltretutto abitava proprio all’Eur) avrebbe certo adorato: «Tutto quello che aveva detto sulla scomparsa di una radice identitaria, non tanto nazionale quanto popolare, lo si può ritrovare qui». Un museo che sulle facciate già liberate dalle impalcature può esibire i mosaici di Fortunato Depero (Le professioni e le arti) e di Enrico Prampolini (le Corporazioni) appena restaurati.
Perché un contemporaneista come Viliani partecipa a un concorso pubblico per la direzione di un museo di antropologia? «Per capirlo basterebbe ricordarsi delle basi antropologiche su cui aveva costituito il proprio percorso un curatore come Harald Szeemann per la sua Biennale del 2001 non a caso intitolata Platea dell’Umanità. Oppure, sempre per restare alle Biennali di Venezia, che all’etnografia hanno guardato sia Massimiliano Gioni con Il Palazzo Enciclopedico del 2013 sia Cecilia Alemani quest’anno per Il latte dei sogni». E proprio alla ricerca delle nuove connessioni tra preistoria, etnografia e contemporaneo («per la prima volta in un museo come questo») è partito il progetto supervisionato dallo stesso Viliani e curato da Matteo Lucchetti che ha portato all’acquisto di sei opere di arte contemporanea: Sammy Baloji, Fragments of Interlaced Dialogues (2017); Rossella Biscotti, Note su Zeret (2015); Ali Cherri (vincitore del Leone d’argento come artista emergente all’ultima Biennale di Venezia), The Digger (2015); Peter Friedl, Tripoli (2015); Adelita Husni-Bey, La montagna verde (2011); Karrabing Film & Art Collective, The Family & the Zombie (2021).
Altri frammenti di contemporaneità nelle vetrine, appartenenti a varie epoche della storia del museo, verranno affidate ai sei artisti (Maria Thereza Alves, Sammy Baloji, DAAR- Sandi Hilal & Alessandro Petti, Bruna Esposito, Karrabing Film & Art Collective, Gala Porras-Kim) coinvolti in una serie di progetti di ricerca. Mentre Georges Senga con la mostra Comment un petit chasseur païen devient Prêtre Catholique, curata da Lucrezia Cippitelli, presenta opere fotografiche e filmiche sulla figura di Bonaventure Salumu, «cacciatore pagano» che tra gli anni Quaranta e Sessanta del XX secolo riceve un’educazione cristiana da alcuni missionari, viene ordinato al sacerdozio, si fa gesuita, si trasferisce in Europa e infine torna nel suo villaggio natale, dove diventa marito e padre. Un modo per esplorare le relazioni pre-coloniali e post-coloniali tra Europa e Africa, a partire dal XVI secolo e fino alla modernità attraverso la narrazione di una storia intima e personale.
Nel prossimo quadriennio, il museo («ormai non ha più senso parlare dei sei musei come entità separate ma di un museo unico») avvierà così una programmazione basata su un processo di progressiva e radicale revisione che riscriverà, provando a metterle in discussione, la sua storia e la sua ideologia istituzionale, a partire dalle metodologie di ricerca e pedagogiche: «Il grande plastico dell’Eur ritrovato nei depositi ripropone, con le sue “ferite” che non abbiamo voluto restaurare, tutti i problemi della conservazione del patrimonio». Dunque una sorta di autoanalisi, anche linguistica di «termini» come orientale e di «abbinamenti» come quello fra preistoria ed etnografia. «Con Adelita Husni-Bey — aggiunge Viliani — abbiamo dato vita a un workshop con studenti, etnografi, artisti nel cui ambito abbiamo iniziato a riflettere sui nomi presenti negli inventari storici e su come le dicotomie linguistiche siano destinate a essere superate».
Mercoledì 26 non si aprono solo i due nuovi ingressi simmetrici del Museo delle Civiltà (quello già operativo nel Palazzo delle Scienze e quello del Palazzo delle Arti e Tradizioni Popolari) dopo un restauro complessivo dell’area al piano terra dell’edificio (nuova biglietteria, nuovi display informativi multimediali, un nuovo progetto illuminotecnico). Perché le novità non stanno solo in un allestimento con i «paleosuoli didattici» che ricostruiscono l’area su cui lavora un archeologo-etnografo o con i «termosifoni parlanti» gialli e neri di Elizabeth Povinelli (artista ma anche professoressa di antropologia) che definiscono fantasiose mappe mentali.
Mercoledì 26, dunque, si cominciano a mettere le radici («come direbbe Michelangelo Pistoletto», scherza Viliani) del nuovo museo del XXI secolo, quello dove il contemporaneo può trovare le proprie ragioni nella preistoria e nell’etnografia.
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