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dialogo tra Gillo Dorfles e Aldo Colonetti
Anticipiamo in questa pagina il dialogo tra Gillo Dorfles (1910-2018) e Aldo Colonetti avvenuto a Milano nella primavera del 2001 in occasione di una lunga registrazione organizzata dalla Rai, da inserire in Rai Educational. Si tratta di un «dialogo sulla contemporaneità», la cui struttura venne a suo tempo preparata e rivista dagli autori, che approfondisce alcuni aspetti della ricerca filosofica ed estetica di Dorfles. Questo testo, finora mai pubblicato, è contenuto nel volume di Gillo Dorfles «Estetica dovunque», in uscita per Bompiani martedì 6 settembre.
ALDO COLONETTI — Il tema fondamentale da cui vorrei partire è quello riguardante il ruolo del mito e del rito all’interno del pensiero estetico.
GILLO DORFLES — È necessaria una brevissima premessa. Noi qui parliamo di estetica, anzi sarebbe più giusto dire della mia estetica. Quando si parla di estetica si parla di filosofia dell’arte, il che ovviamente è giusto, però tengo a precisare che per me l’estetica è stata sempre qualche cosa che non è solo filosofica, ma è anche legata ad altre discipline come l’antropologia, la psicanalisi, la semiotica, in altre parole le cosiddette scienze umane; è solo così che possiamo avere un approccio all’opera d’arte che non sia esclusivamente teorico e quindi che non comprenda quelle caratteristiche diciamo così sentimentali, sensoriali che fanno parte dell’opera d’arte. Non solo, ma un’altra cosa va precisata: per me l’approccio dell’arte non è mai soltanto cognitivo e razionale, ma è qualche cosa che ha sempre a che fare con il sentimento, con l’emozione. In altre parole, secondo me esiste un tipo di pensiero, basato sulle qualità emotive dell’uomo, accanto al pensiero cognitivo e razionale. È solo così che possiamo avere un approccio all’opera d’arte che sia diverso da quello che abbiamo quando prendiamo in considerazione un’operazione scientifica, pratica ed economica.
AC — Credo che questo sia il punto di partenza fondamentale che riporta al centro tutta la tua produzione saggistica. Per questa ragione, mi piacerebbe riprendere il tema che hai indicato nel tuo saggio Nuovi riti, nuovi miti all’interno di questa visione multidisciplinare: da un lato gli aspetti cognitivi e dall’altro quelli di carattere «sentimentale».
GD — Nel mio libro Nuovi riti, nuovi miti, come in parte anche in Simbolo comunicazione consumo, partivo da una considerazione del pensiero simbolico come un’attività «ultrarazionale», assumendo il pensiero mitico come estremamente importante non solo per il passato, ma anche per il presente. Appunto, si è abituati a considerare l’antichità e in generale il pensiero degli antichi come ancora avvolto nelle nebbie del mito e si pensa che il nostro pensiero sia invece fondato esclusivamente sulla razionalità. In realtà non è così: noi anche oggi dobbiamo basare la nostra conoscenza, la nostra esperienza, soprattutto artistica, tenendo conto di alcune caratteristiche del mito che vivono ancora ai nostri giorni. Non solo, ma parlando di pensiero mitico, naturalmente pensiamo ad alcuni dei grandi studiosi che si sono alternati nello studio di queste discipline da Giambattista Vico a Ernst Cassirer a Gilbert Durand, il grande antropologo francese che ha dedicato al problema del mito la sua opera maggiore. Ora, se noi pensiamo a quello che è il pensiero mitico, ci rendiamo conto che anche oggi ha un’importanza decisiva per quello che è il nostro ragionamento e per quella che è la nostra attività creativa. In questo senso mi pare che sia importante ricordare il lavoro di un antropologo francese, Dan Sperber, che ha studiato a lungo alcune popolazioni dell’Africa centrale: i dogon. Ebbene Sperber, studiando queste popolazioni, ha evidenziato quelli che erano i loro antichi miti, vivi ancora ai nostri giorni; afferma che in questo loro pensiero mitico esistono elementi di razionalità che non possono essere disconosciuti. E questo ci fa pensare che anche in molti elementi espressivi dell’arte, della poesia, della musica, che in apparenza sono nebulose, avvolte da un’aura misteriosa, ebbene anche in quel caso svolge un ruolo fondamentale l’elemento razionale che sembra nascosto, ma che invece, a un certo punto, appare come evidente e determinante.
La premessa
«Per me l’approccio dell’arte non è mai solo razionale, ma ha a che fare con l’emozione»
AC — Questa tua sottolineatura della funzione che il mito svolge nell’attività della produzione artistica mette al centro anche un altro grande tema della ricerca filosofica, la relazione tra il razionale e l’irrazionale. Si possono fare alcuni esempi nell’arte moderna e contemporanea dove emerge, in modo evidente, questa particolare polivalenza del ruolo del mito?
GD — Credo che abbiamo moltissime prove sotto i nostri occhi, a cominciare da tutta quella che è stata la corrente del surrealismo, da Antonin Artaud fino a René Magritte, da Salvador Dalí fino a Yves Tanguy: abbiamo, come del resto in opere come quelle di Cocteau, degli elementi che sono sempre sfuggenti rispetto a quello che è il pensiero vigile, affondando le loro radici in quella che possiamo forse considerare come una sorta di oniricità permanente, uno stato sognante. Basti pensare a un libro come Oppio di Cocteau, scritto naturalmente sotto l’influsso dell’oppio. Siamo di fronte a una scrittura la cui consistenza è nebulosa, è più che altro onirica. Al giorno d’oggi forse non teniamo più conto di quante verità, di quante situazioni veramente importanti per la conoscenza, siano ancora avvolte da un’aura di mistero.
AC — A proposito della riflessione che facevi poco fa in relazione ad alcuni artisti del surrealismo vorrei, a questo punto, approfondire, sempre rispetto al tema del mito, un altro argomento a esso legato, oggetto di alcune tue ricerche: il ruolo della psicanalisi rispetto alla dialettica tra pensiero cosciente e attività simbolica.
GD — Naturalmente la psicanalisi, come molte delle teorie e delle pratiche che si sono rivolte all’inconscio, al subconscio, ha avuto nella nostra civiltà un’importanza notevolissima, anche se oggi il pensiero di Freud come quello di Jung e di vari discepoli, basti pensare a Melanie Klein, Ernst Kris, Wilhelm Reich, sono stati un po’ messi in discussione, sono considerati forse meno importanti di quanto lo fossero in passato. Non possiamo, comunque, negare che per molti artisti moderni contemporanei la psicanalisi sia stata un elemento suggestivo che ha dato luogo ad alcune esperienze artistiche forse superiori a quelle che avrebbe immaginato lo stesso Freud. Lo stesso André Breton si recò a Vienna a trovare Freud, sperando di trovare un alleato entusiasta, mentre venne, non dico messo alla porta, ma quasi ignorato dal grande psicanalista, perché secondo Freud, in fondo, Breton non aveva capito nulla della psicanalisi. È difficile trasferire un’analisi onirica nel linguaggio della rappresentazione visiva; è ovvio che entra in gioco la soggettività dell’artista che spesse volte è più veggente dello scienziato; forse è nata qui l’incomprensione tra Freud e Breton. Ma, a parte questo particolare episodio, non c’è dubbio che tutto il movimento surrealista e in seguito il movimento del dadaismo zurighese abbiano le loro origini proprio in una, probabilmente malintesa, ricerca del nostro inconscio. In altre parole tutti quegli elementi appunto ancora nebulosi, ancora incerti che si agitano nel nostro inconscio, emergono poi sotto forme artistiche attraverso un linguaggio che deve mantenere una propria autonomia, senza svelare verità che, in questo ambito, sono sempre soggettive.