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di Alessandra Ziniti
A dispetto del nome altisonante la gang del kalashnikov di Trieste non spara e non ha un’organizzazione strutturata che pianifica atti criminali. Violenta sì, composta da una decina di ragazzi tra i 15 e i 17 anni, niente capo né compiti predefiniti. Come la gran parte delle bande giovanili che negli ultimi cinque anni sono decisamente aumentate soprattutto al centro-nord. E che — sorpresa — sono composte prevalentemente da italiani e non da stranieri, né di prima né di seconda generazione. Più che il disagio economico è il disagio sociale, la mancata inclusione nel contesto in cui si vive, l’assenza di modelli di riferimento in seno alla famiglia a spingere gli adolescenti verso il gruppo. Che pratica azioni violente, spesso gratuite, rilanciandole sui social network proprio per rafforzare l’identità di gruppo e generare riconoscimento ed emulazione.
Identità potrebbe appunto essere la parola chiave per leggere, in modo più analitico il fenomeno delle bande giovanili che resta di difficile definizione anche per chi lo studia. Come i ricercatori di Transcrime, centro di ricerca sulla criminalità transnazionale delle università Cattolica di Milano, Alma Mater di Bologna e di Perugia, che insieme alla Direzione centrale della polizia e al Dipartimento di giustizia minorile hanno dato vita alla prima mappatura delle gang in Italia evidenziandone caratteristiche e radicamento nelle diverse aree del Paese.
Identità, dicevamo, perché — spiega Gemma Tuccillo, capo dipartimento per la giustizia minorile — «il gruppo gioca un ruolo in adolescenza per la costruzione dell’identità e nel processo di emancipazione rispetto al mondo adulto. Oggi si assiste a reati commessi da gruppi di adolescenti, appartenenti a classi sociali diverse, spesso non organizzati e aggregati da contingenze occasionali, nei quali si evidenzia maggiormente il disagio sociale, piuttosto che una volontà criminogena».
La maggior parte dei reati loro attribuiti, infatti, sono ai danni di coetanei: risse, lesioni, aggressioni, bullismo, atti di vandalismo, disturbo della quiete pubblica.
Ecco l’identikit delle gang giovanili in Italia disegnato dalla ricerca che, sulla scorta dei dati della banca dati in cui confluisce l’attività di polizia e carabinieri, propone quattro modelli definendone il radicamento sul territorio. Il più diffuso, in tutte le macro aree del Paese, è appunto il gruppo non strutturato, composto in prevalenza da ragazzi italiani che commettono atti di violenza di questo genere ma quasi mai traffico di stupefacenti, estorsioni, rapine in casa o in locali. Reati più gravi che invece caratterizzano la seconda tipologia di gang, quella che si ispira o ha legami con organizzazioni criminali ed è più presente nelle regioni del sud. Anche in questo caso i componenti sono quasi tutti italiani. Diversa invece la composizione dei gruppi, più diffusi al centro nord, soprattutto in Lombardia, Piemonte, Liguria, Emilia Romagna, che si ispirano a gang estere e che vedono insieme giovani stranieri di prima e seconda generazione non integrati nel tessuto sociale. L’ultima tipologia, diffusa nelle aree urbane, è quella dei gruppi che invece hanno una struttura definita e che compiono reati gravi pur non avendo legami con la criminalità.