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4 Maggio 2024L’anniversario Il 4 maggio del 1954 morirono in 43 nella più grave tragedia mineraria del dopoguerra L’atto di accusa di Bianciardi e Cassola che raccontarono un «popolo» sfruttato nelle viscere della terra
di Salvatore Mannino
Morirono in 43 quel 4 maggio del 1954, settant’anni fa. La più grave tragedia mineraria italiana del dopoguerra, per ricordare la quale arriverà oggi anche il segretario della Cgil Maurizio Landini, superata nell’eco popolare solo dall’ecatombe di Marcinelle, in Belgio, due anni dopo, 260 vittime, la metà delle quali poveri minatori italiani.
Ma c’è ben poca somiglianza fra la piatta pianura del nord-Europa e l’ondulato paesaggio collinare della Maremma, le Colline Metallifere di Ribolla, comune di Roccastrada, teatro di una catastrofe annunciata per la quale non ha mai pagato nessuno e che è tuttavia rimasta nella memoria pubblica come un evento epocale, anche per la denuncia di due scrittori, maremmani di nascita o di adozione, destinati a diventare famosi, Luciano Bianciardi e Carlo Cassola. Furono loro a raccontare la drammatica epopea di un «popolo» di sepolti vivi, che scavavano lignite nelle viscere della terra, senza mai vedere la luce del sole, in condizioni di lavoro e di sfruttamento quasi disumane, sempre col rischio dei crolli e delle esplosioni di grisou, il gas delle miniere, a due passi dalla costa, oggi fra le mete di vacanza più frequentate e ambite. Un’altra Italia, un altro mondo.
C’era il grisou, appunto, quella mattina di tregenda, alla ripresa del lavoro dopo il primo maggio, ma nessuno seppe o volle prevederne gli effetti. Si calarono in 48 nella prima «gita» (discesa) della giornata, ne uscirono vivi solo in cinque. Un’esplosione sorda a 260 metri di profondità, avvertita distintamente fino in paese, un agglomerato di povere case di minatori, poi una colonna di fumo sinistra. Ci vollero ore per organizzare i soccorsi, nella disorganizzazione della direzione di miniera, di proprietà della Montecatini: solo nel pomeriggio vennero estratti i primi 36 cadaveri, alcuni dei quali resi irriconoscibili dall’esplosione, altri intatti, vittime dell’asfissia dentro le gallerie del pozzo «Camorra sud», il più recente e anche il più redditizio. Servirono giorni per tirar fuori tutti i corpi, l’ultimo minatore morì in ospedale a distanza di settimane. Fatalità, come pure affermò la sentenza del processo di Verona del 1958 che assolse dirigenti e tecnici della Montecatini per non aver commesso il fatto? No, gridarono forte i sindacati e i minatori, no, scrissero con rabbia Bianciardi e Cassola nell’ultimo capitolo del loro I minatori della Maremma , uscito nel 1956, un atto di denuncia implacabile contro i metodi di estrazione della Montecatini, poco diversi da quelli di un capolavoro come Germinal , di Emile Zola, ambientato nelle miniere francesi di fine ‘800.
«La sciagura di Ribolla — accusò Bianciardi — non fu dovuta a una ‘tragica fatalità’ ma alla consapevole inadempienza di precise norme di polizia mineraria». Basterà ricordare che i 3.600 minatori dell’immediato dopoguerra erano già ridotti a 1.700 e che la lignite, scoperta nel 1835, veniva estratta a «fondo cieco», senza richiudere le gallerie in cui si accumulava il gas.
I due scrittori, colleghi di insegnamento al Liceo Carducci-Ricasoli di Grosseto (Bianciardi era anche direttore della Biblioteca Chelliana cittadina) ma ancora lontani dalla fama, avevano cominciato a battere le miniere maremmane nei primi anni 50. Reportages pubblicati dall’ Avanti! e poi raccolti in volume quando già Bianciardi era scappato da Grosseto, proprio dopo la tragedia di Ribolla e i funerali cui parteciparono 50 mila persone, membri del governo, politici famosi e i leader delle tre sigle sindacali.
Già, perché la catastrofe nella miniera fu un vero e proprio choc per lo scrittore grossetano, che sentì di colpo tutta la vanità del lavoro di organizzazione culturale che aveva svolto nel capoluogo maremmano, ribattezzato Kansas City, a cominciare dal Bibliobus, un mezzo a motore che girava per le campagne a distribuire libri. La sua rabbia contro chi aveva reso possibile la sciagura diventò una scelta di vita (il trasferimento a Milano da intellettuale il più possibile irregolare) e anche una delle principali fonti di ispirazione. Il Luciano suo alter ego, protagonista della Vita agra , il romanzo che lo rese famoso, arriva appunto nella metropoli lombarda con un solo scopo: far saltare la sede della Montecatini, per vendicare le vittime. Scopo solo letterario, tanto che Bianciardi affogò nell’alcool la sua frustrazione, fino a morirne nel 1971, ad appena 48 anni.
Di lui restano le parole che scrisse per Belfagor, nota rivista culturale, nel 1952: «Io sono con loro, i minatori e i badilanti della mia terra, e ne sono orgoglioso; se in qualche modo la mia poca cultura può giovare al loro lavoro, alla loro esistenza, stimerò buona questa cultura». Dei 43 morti di Ribolla, della loro epopea tragica, rimane il ricordo di un’altra Italia, ancora arretrata in molte sue parti, disperatamente misera ai nostri occhi. Ma oggi come allora si continua a morire di lavoro.
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