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di Paolo Giordano
Iniziamo parlando di western. Fra le varie attività a cui si dedica — scrivere, dipingere, riparare chitarre — Percival Everett tiene anche un corso sul cinema western alla University of Southern California. Non è mai stato un appassionato del genere, nemmeno da ragazzo, in effetti trova i western «piuttosto ripetitivi», ma per scrivere Il paese di Dio, un romanzo del 1994 (pubblicato in Italia da Nutrimenti, come tutta la sua prima produzione), ne ha visti un’infinità, scoprendo che erano uno strumento efficace per indagare «un certo tipo di pathos tipicamente americano». Così è nata l’idea del corso, che continua da quindici anni.
«Analizziamo i film girati prima del 1974 per studiare come all’America piacerebbe vedere sé stessa. La nozione dell’eroe bianco che sa tutto e salva tutti è persistente, e viene fondata in film come Il cavaliere della valle solitaria. La grande novità che il western americano ha portato con sé è l’idea che le popolazioni native costituissero un impedimento all’espansione. Così, anche quando all’apparenza l’eroe non è bianco, in realtà è bianco. In Sentieri selvaggi, considerato uno dei migliori western di sempre, John Ford sembra prendere di mira il razzismo contro i nativi, quando in realtà sta sfruttando quello stesso razzismo a proprio favore. Un procedimento abbastanza tipico».
Abbiamo la fantasia che gli studenti di oggi siano più sensibili a questi temi: pregiudizi razziali, appropriazione culturale, colonizzazione.
«Possono essere più sensibili. Ma il vero cambiamento è la loro totale mancanza di famigliarità con la forma. Quando ho iniziato a insegnare questo corso, tutti gli studenti avevano visto almeno un western. Ora no».
Gli alberi, il romanzo di Percival Everett finalista al Booker Prize 2022 — una delle letture più originali, libere e coinvolgenti che mi siano capitate in molto tempo —, non è un western. È semmai un poliziesco sulla segregazione razziale, con una tendenza spiccata verso l’hard-boiled e il dark humor, o almeno è così che mi avventuro a definirlo prima che Everett mi freni: «Al centro del romanzo non c’è un delitto da risolvere, quindi non è un giallo. E immagino che la presenza dei detective nella storia non lo renda una detective story più di quanto la presenza di un medico renderebbe una qualsiasi narrazione… un melodramma medico».
Comunque lo si voglia definire, all’origine degli Alberi c’è un fatto di cronaca. Nel 1955 Emmett Till aveva quattordici anni e stava trascorrendo le vacanze estive a casa di uno zio, a Money, Mississippi. Un giorno si trovava in un negozio di alimentari insieme ad altri ragazzi neri come lui, e rivolse la parola alla proprietaria, una ragazza bianca di ventuno anni di nome Carolyn Bryant. Lei, che aveva giudicato l’approccio decisamente troppo baldanzoso, denunciò l’«aggressione» al marito Roy, che insieme al fratellastro decise di dare una lezione a Emmett Till. Dopo averlo rapito e picchiato selvaggiamente, i due gli spararono e gettarono il cadavere nel fiume Tallahatchie, con un peso legato al collo. Alcuni giorni dopo, tuttavia, il corpo di Emmett venne ritrovato e mandato a sua madre, a Chicago. Sfidando le autorità e ogni consuetudine dell’epoca, Mamie Till pretese che la bara con il cadavere sfigurato del figlio rimanesse aperta durante il funerale.
«L’aspetto più triste è che esistono migliaia di Emmett Till, accumulati in quattrocento anni di storia americana. Till divenne iconico solo per via della fotografia scattata alla sua faccia devastata nella bara. Sua madre avrebbe potuto sprofondare nel lutto, nella rabbia, invece fu capace di trasformare il lutto e la rabbia in impegno: mostrò al mondo quello che avevano fatto al figlio per impedire che la stessa sorte toccasse ad altri. La sua forza dice qualcosa di importante sulla solidarietà all’interno di una comunità oppressa».
Alcuni dei protagonisti degli Alberi sono i discendenti diretti degli assassini di Emmett Till: i figli di Roy e Carolyn Bryant, bianchi poveri che vivono ancora a Money, ignoranti e razzisti come chi li ha generati, suprematisti, white trash. Uno di loro, Wheat Bryant, è la prima vittima di una serie di omicidi misteriosi per i quali verrà coinvolta l’Fbi. Dettaglio macabro: al cadavere di Wheat sono stati recisi i testicoli, che si trovano nelle mani di un giovane nero sfigurato, cadavere anche lui, lì accanto. Forse l’assassino? Prima che la verità possa essere accertata, il cadavere del giovane nero scompare nel nulla. Riapparirà accanto alla seconda vittima bianca, e poi alla successiva e alla successiva ancora, ogni volta con un paio di testicoli nuovi stretti fra le dita. L’ispirazione per questo revenge book sugli innumerevoli linciaggi avvenuti in Mississippi, è arrivata a Everett da una canzone: Ain’t No More Cane, il cui testo dice: «Why don’t you rise up, you dead men?», perché non vi risollevate, uomini morti? Ed è esattamente ciò che succede nel libro: i morti si risollevano, tornano per cercare vendetta.
«Esistono molte versioni di Ain’t No More Cane, anche una di Bob Dylan. Ma prima di iniziare il romanzo ne sentii una di Lyle Lovett con un coro gospel che mi turbò particolarmente. Sulla scorta di quel turbamento ho iniziato a pensare alla storia».
È straordinario come da una materia cupa come i linciaggi sia scaturito un romanzo divertente come Gli alberi. Ma molta della fama di Everett è dovuta proprio alla sua verve satirica, affinata libro dopo libro, e così rara in letteratura. Di questo non gli chiedo nulla però: fa parte del suo stile. In più, mi sembra che non ci sia nulla da aggiungere: la comicità va attraversata non spiegata. Gli domando, invece, cosa sapesse della storia dei linciaggi prima di cominciare Gli alberi.
«Preferirei che tutto quello che ho raccontato non si trovasse già nella mia coscienza (ride). Ma la mia generazione conosce molto bene gli abusi contro chi protesta e il linciaggio da parte di gruppi d’odio, in particolare il Ku Klux Klan. E conosciamo bene la continuazione di tutto questo nell’attualità, in una forma appena diversa: la brutalità della polizia che sfocia nell’omicidio. Spesso le persone non ricordano che le Pantere Nere non si formarono per un dissenso verso il governo americano, ma come risposta alla violenza della polizia sui neri. Solo in seguito divennero una voce politica. Cos’è il linciaggio? È l’assassinio commesso da una folla che rimane impunita. I poliziotti di oggi non vengono quasi mai accusati delle morti dei neri, quindi anche i loro sono dei linciaggi. E cosa c’è di più spaventoso del fatto che le persone incaricate di proteggerti siano quelle che invece ti ammazzano?».
Mama Z ha costruito un archivio dei casi di linciaggio avvenuti nella zona di Money. Settemila e sei dossier: una stanza intera di faldoni contenenti storie atroci. Un professore universitario, che è un chiaro alter ego di Everett, viene chiamato a esaminarli. Compila una lista di nomi delle vittime. Nel libro l’elenco occupa undici pagine e arriva come uno choc dopo una serie di situazioni di certo grottesche ma anche esilaranti.
«Ognuno dei nomi è vero. Ognuna delle storie citate è vera».
A un certo punto Mama Z dice: «Anche se credessi in un dio, non crederei a questo (al giudizio divino). Meno dell’un per cento dei linciatori è stato condannato per un delitto. E solo una frazione di questi ha scontato una condanna in carcere».
«Negli Stati Uniti, salvo casi specifici, l’assassinio non è un crimine federale, bensì un crimine statale. Questo significa che l’imputato viene giudicato da una giuria di persone appartenenti alla sua stessa comunità. I neri non erano ammessi nelle giurie. Ed ecco fatto: se anche i linciatori venivano processati, cosa rara, non venivano mai condannati».
Il dialogo tra Mama Z e il professore universitario prosegue così: «Secondo te perché i bianchi hanno tanta paura (dei neri)? — Chissà. Forse per un senso di inadeguatezza sessuale. Un’amplificazione del proprio desiderio di stuprare. Cosa che fecero. Ma credo che lo stupro fosse solo una scusa. — Pensi che i bianchi abbiano semplicemente paura dei neri? — Penso sia uno sport». Sesso, paura, sport.
«Tutte queste ragioni insieme. Di certo c’entra la paura della mascolinità nera. Ma non erano solo i maschi neri a essere linciati. Probabilmente la ragione principale dei linciaggi era l’impunità. Potevano farlo senza conseguenze, quindi lo facevano. Perché non succede più oggi, con l’eccezione della polizia? Perché non puoi più farlo senza temere delle conseguenze».
Rispetto alla polizia, l’assassinio di George Floyd non ha cambiato nulla?
«Da una parte, l’uccisione di George Floyd è stata solo una in più in quell’elenco che prosegue da quattrocento anni. Dall’altra, ha funzionato come catalizzatore delle proteste. Per una volta nelle strade non c’erano solo neri ma anche altri americani, soprattutto giovani. Forse è successo perché nel 2020 avevano tutti voglia di uscire di casa, oppure perché si stavano ripetendo così tanti eventi simili, non so. In ogni caso mi ha colpito l’ampiezza dello spettro che quei giovani rappresentavano, etnicamente e culturalmente. Il loro modo di articolare i problemi era convincente. Dopodiché, la morte di George Floyd ha cambiato davvero qualcosa? Immagino che qualcosa debba essere cambiato, ma in questo Paese subiamo la narrazione che ormai la politica di destra ha imposto: bollare qualsiasi manifestazione pubblica a favore degli altri, dei propri concittadini, come antiamericana, antipatriottica».
Everett costruisce un gioco di parole basato sulla rima antipatriotic/ idiotic, esattamente come avrebbe fatto uno dei suoi personaggi.
«Non so cosa ci sia di sbagliato negli Stati Uniti. L’indignazione qui ha vita breve, le proteste durano dieci giorni poi svaniscono. Le battaglie per i diritti civili sono andate avanti a lungo fra gli anni Quaranta e i Settanta, ma non avevano la copertura dei media. Ora, al contrario, siamo annebbiati da questi cicli continui di news. Storie che si avvicendano ogni dodici minuti. Io non partecipo in alcun modo alla vita sui social, ma credo di vederne i risultati: siamo diventati intellettualmente pigri. La polarizzazione è il nuovo standard del discorso politico».
Gli alberi si svolge in epoca Trump, forse il culmine della polarizzazione. L’ex presidente compare in prima persona nell’ultima parte del libro, quando negli Stati Uniti esplode una vera e propria guerra. Pensando all’attacco a Capitol Hill, Everett non si è spinto molto oltre a dove sarebbe arrivata la realtà.
«Non credo che ci riprenderemo dall’aver avuto un presidente così privo di sostanza come Donald Trump. O comunque ci vorrà molto tempo. Gli Stati Uniti sono notoriamente, da sempre, un Paese anti-intellettuale, ma quegli anni ci hanno reso aggressivamente anti-intellettuali. Hanno legittimato non solo coloro che si rifiutano di pensare, ma coloro che non sono equipaggiati per pensare. Hanno portato all’accettazione della stupidità, dell’ignoranza e dell’arroganza come normali. Si vede già in questa nuova ondata di politici, per i quali non ha alcuna importanza cosa sia giusto o sbagliato, la qualità di un’opinione rispetto a un’altra, non ha importanza nemmeno essere razzisti o non esserlo, ma solo il trovarsi il più possibile allineati con le posizioni del partito. In alcuni Stati si sta cercando di interrompere l’insegnamento dello schiavismo. C’è una spinta fortissima ad abolire i libri o qualsiasi trasmissione della storia che possano mettere gli Stati Uniti in una luce che non sia esclusivamente mitologica e positiva. Ogni riconoscimento della sofferenza che questa nazione ha causato è visto non come un’opportunità di migliorare, ma come un attacco alla nazione».
Come se ne esce?
«Cominciando ad ammirare le persone che riflettono. Non gli eroi che entrano in un palazzo, sparano all’impazzata e salvano tutti — di quelli siamo pieni — ma gli eroi intellettuali. Mi rendo conto che come immagine per una locandina non è efficace quanto Clint Eastwood che estrae le sue pistole. Ma un mondo di eroi intellettuali assomiglia molto di più a quello in cui vorrei vivere».