Torna in libreria “L’essere e il nulla”, classico della filosofia moderna firmato da Jean-Paul Sartre. Sempre attuale
Per alcuni L’essere e il nulla di Sartre — adesso riedito dal Saggiatore con una nuova prefazione di Massimo Recalcati — è l’ultimo classico della filosofia moderna. L’ultimo saggio filosofico all’altezza di una tradizione che ha trovato nella fenomenologia di Husserl e nell’ontologia di Heidegger le sue espressioni più rilevanti. Sartre apre con essi un confronto serrato, facendosene l’interlocutore più prossimo. Ma, rispetto a loro, aggiunge qualcosa di più, che tocca l’esistenza dell’uomo nella concretezza delle sue situazioni e nella necessità delle sue scelte. Da questo nuovo stile filosofico lo straordinario successo di un’opera anche letteraria, teatrale, politica che per un ventennio, dal dopoguerra, fa del suo autore un protagonista assoluto della scana mondiale. A un’intera generazione, soprattutto giovanile, Sartre appare una stella filosofica di prima grandezza. Ma non solo questo. Passato per la resistenza francese al nazismo ed entrato in dialogo con il marxismo, egli diventa presto il prototipo dell’impegno intellettuale. Un punto di riferimento della sinistra internazionale, il più fermo rappresentante dell’anticolonialismo, quasi un’icona che da Saint-Germain-des-Prés parla a una platea che nessun altro filosofo contemporaneo aveva conosciuto.
Eppure, all’inizio degli anni Sessanta la sua fulminante parabola conosce un lento declino. Già la presa di distanza di Heidegger dalla sua celebre conferenza “L’esistenzialismo è un umanesimo” aveva aperto un primo fronte critico. Poi la Scuola di Francoforte, con Adorno e Marcuse, sembra parlare un linguaggio più radicale che mette in discussione l’intera tradizione illuministica. Infine lo strutturalismo porta un attacco frontale all’umanesimo sartriano, contestandone la stessa nozione di soggetto. Quando, più tardi, la filosofia analitica, tra cognitivismo e neuroscienze, allargherà la sua sfera d’influenza, l’esistenzialismo di Sartre sembrerà ormai appartenere a un’altra epoca. Sartre — scrive nella sua bella monografia Ritorno a Jean-Paul Sartre (Einaudi) Massimo Recalcati — «appare come un cane morto».
Al quale, però, occorre tornare non solo per rivedere un’interpretazione riduttiva che ha finito per schiacciarlo su un’immagine di maniera. Ma anche perché la questione della soggettività, dopo la decostruzione cui è stata sottoposta, non è affatto chiusa. Proprio L’essere e il nulla consente un’interlocuzione con la psicoanalisi ricca di potenzialità inedite. Nonostante la polemica sartriana nei riguardi di Freud e il rifiuto di Lacan nei confronti di Sartre, il triangolo tra questi tre autori, profilato con efficacia da Recalcati, apre un nuovo spazio dipensiero. Gli assi intorno a cui ruota sono la questione della libertà e la dinamica del desiderio. Innanzitutto va contestata l’idea di una libertà senza condizioni. La libertà, per Sartre, è sempre condizionata dal contesto sociale, storico, famigliare. Essa è tagliata da un’alterità — quella che la psicoanalisi chiama “Altro” — da cui non può mai del tutto emanciparsi. E infatti, come è detto in un passo famoso, «non siamo liberi di non essere liberi». «Siamo condannati alla libertà». Sartre si muove lungo una linea sottile, tenendosi a distanza sia dal determinismo — il peso del passato infantile, enfatizzato da Freud — sia da un umanesimo indeterminato. La responsabilità dell’uomo sta proprio nella coscienza del carattere necessario della libertà. Anche laddove apparentemente non c’è scelta, resta un “piccolo scarto” che consente al soggetto di assumere in proprio ciò che sembra vincolarlo senza scampo. Come insegna l’esperienza di Flaubert neL’idiota di famiglia — la grande monografia che Sartre dedica allo scrittore – , l’uomo non può che vivere la propria vita, ma può anche aprirla a una possibilità a prima vista impossibile — per Flaubert la scrittura.
L’altro elemento che spinge Sartre nel nostro orizzonte di senso è il desiderio. «Desiderio di essere » è la formula con cui è indicato un impulso che condanna l’uomo a quella che Hegel definiva «coscienza infelice». Senza, però, la fiducia hegeliana nella virtù terapeutica del negativo, che ne faceva una tappa dialettica in vista del sapere assoluto. Ciò non è possibile, perché quello che ci attraversa non è un desiderio di riconoscimento e neanche, come in René Girard, un desiderio mimetico di ciò che ogni altro desidera. Ma è il desiderio, costitutivamente impossibile, di essere Dio. E dunque di perdersi come uomo. Un annientamento della vita che può richiamare la pulsione di morte che Freud teorizza inAldilà del principio di piacere . È il nodo che stringe il desiderio alla sua stessa negazione. Che identifica desiderio di essere e desiderio di perdita. Eppure, in questa strada senza uscita, che fa dall’angoscia la disposizione fondamentale dell’esistenza, si apre un estremo varco al quale rimandano le pagine conclusive di L’essere e il nulla. Non si tratta di superare il desiderio di essere — sarebbe impossibile per l’uomo. Ma di abitarlo in modo diverso, liberandolo dal fantasma mortifero della totalità, dall’ambizione di coincidere pienamente con se stessi. Accettare la contingenza della propria esistenza vuol dire sapere che veniamo dall’altro, che non siamo fondamento di noi stessi, che la mancanza è insuperabile. In questa consapevolezza si apre lo spazio per un’etica, e forse anche per una politica, di cui, nonostante tutte le eclissi del soggetto, abbiamo ancora bisogno.