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A Siena la politica sembra essersi inceppata. La città appare sospesa, priva di un progetto e senza leader capaci di mobilitare energie e passioni collettive. Eppure il tempo scorre veloce: le elezioni amministrative sono ormai alle porte e il centrosinistra, principale forza d’alternativa alla maggioranza di centrodestra, si muove senza una vera strategia.
I nomi che circolano sono due: Tomaso Montanari e Massimo Bianchi. Il primo, storico dell’arte e rettore dell’Università per Stranieri di Siena, è una figura di spicco del dibattito culturale e politico nazionale, con una visione chiaramente orientata a sinistra e un’esperienza di mobilitazione civica maturata soprattutto a Firenze. Il secondo, docente universitario e priore della Contrada della Torre, ha alle spalle una lunga esperienza amministrativa come assessore al bilancio nella giunta Cenni. Due profili molto diversi ma accomunati da una constatazione: non rappresentano la rottura, il salto di paradigma di cui Siena avrebbe bisogno.
Montanari ha dichiarato di non voler correre come candidato sindaco, preferendo un ruolo da intellettuale impegnato e da promotore di un campo largo progressista. Bianchi, ben conosciuto nella politica cittadina, rappresenta invece la memoria istituzionale, la continuità di un sistema che conosce la città ma che rischia di non parlare più a chi cerca un cambiamento vero.
Siena, del resto, non è più quella di venti o trent’anni fa. La crisi del Monte dei Paschi di Siena ha segnato una svolta storica: la fine di un modello economico e sociale che aveva garantito benessere diffuso, coesione e stabilità. Il legame tra banca, territorio e politica si è dissolto, lasciando una città più fragile, esposta ai rischi di un’economia basata quasi esclusivamente sul turismo, sull’università e sui servizi. Questo ha modificato la struttura sociale della città, creando nuove diseguaglianze e un senso di smarrimento identitario. Siena fatica a riconoscersi nelle sue stesse narrazioni e simboli, mentre le giovani generazioni non trovano spazi né rappresentanza. È in questo vuoto che la politica avrebbe dovuto intervenire, immaginando una nuova funzione urbana per la città: non più città-banca, ma città del sapere, della cultura, della sostenibilità.
Invece la politica locale resta prigioniera di se stessa. Siena diventa così l’emblema di una crisi più generale che attraversa molte città italiane di medie dimensioni, in cui la persistenza dei notabili e dei gruppi di potere tradizionali impedisce il ricambio e soffoca ogni spinta innovativa. I partiti, svuotati di capacità organizzativa e di visione, inseguono i singoli più che i progetti collettivi. Il rischio concreto è di arrivare ancora una volta al ballottaggio senza un candidato forte capace di vincere al primo turno. Uno scenario già visto, che ha prodotto maggioranze deboli e compromessi al ribasso, governi locali costretti a mediare con chi rappresenta solo una frazione dell’elettorato ma diventa decisivo per far pendere l’ago della bilancia.
Per cambiare rotta servirebbe un progetto condiviso, una visione capace di ridefinire il ruolo di Siena nel XXI secolo. Serve un’idea di città che guardi oltre il turismo di massa, che investa sul sapere, sulle nuove tecnologie, sulla qualità della vita, sulla partecipazione. Ma chi è in grado di farlo? Chi ha la forza, la credibilità e la capacità di mettere insieme un campo largo senza frantumarlo alla prima difficoltà? La risposta, per ora, non c’è. Eppure il tempo è poco. Siena ha subito profondi cambiamenti, ma senza una politica capace di interpretarli, rischia di restare ferma mentre il mondo intorno corre.
La città può e deve fare di meglio. Ma serve un nuovo inizio. La domanda è: chi sarà in grado di guidare davvero questo passaggio? Chi avrà la forza e la visione per costruire un progetto all’altezza dei cambiamenti che Siena ha già vissuto?