Centro più centro = centro, ma una vera sinistra dov’è?
26 Luglio 2022Il ballo della destra
26 Luglio 2022Parla Valdo Spini, ex ministro nei governi Amato e Ciampi “Era la bussola del premier che cercava il patto tra le parti sociali”
«Il governo Draghi ha seguito la bussola del socialismo liberale. Ed è stato fatto cadere proprio mentre stava realizzando forse l’operazione più importante dal punto vista di questo impianto ideale: un patto tra le parti sociali, tra i rappresentanti del lavoro e dell’impresa, per affrontare le sfide di una grave crisi sociale e culturale ». Figlio di un insigne azionista, Valdo Spini ha dedicato la sua vita di studioso alla memoria della famiglia culturale di Carlo Rosselli ed Ernesto Rossi. Per trent’anni parlamentare nelle file socialiste, ministro dei governi Amato e Ciampi, oggi presiede la Fondazione Circolo Fratelli Rosselli. E continua la militanza attraverso l’impegno intellettuale.
Fin dal principio lei aveva rintracciato nell’ispirazione di Mario Draghi una radice azionista.
«Il mio era stato soprattutto un auspicio, rivolto al premier e al Partito Democratico. Oggi che purtroppo possiamo farne già il bilancio, vedo nell’operato di Draghi una fedeltà a determinati principi, in continuità con quanto facemmo con il governo di Carlo Azeglio Ciampi nel 1993. Non devo certo ricordare la militanza giovanile di Ciampi nel Partito d’Azione».
In che cosa vede questa continuità?
«Fu Ciampi nel 1993 a realizzare quel patto sociale anti-inflazione che si sarebbe rivelato fondamentale. E il fatto che l’attuale governo sia stato impallinato mentre cercava di raggiungere lo stesso obiettivo mi sembra una tra le cose più gravi dell’attuale crisi».
In quali altri aspetti dell’azione di Draghi vede un’eredità del socialismo liberale?
«I socialisti liberali sono convinti che le società progrediscano quando certo agiscono meccanismi di tutela delle imprese, ma nell’ambito d’una società giusta, dove sono garantiti i diritti di inclusione e di istruzione, la coesione sociale, l’eguaglianza nelle opportunità. Al contrario il pensiero liberista fa coincidere il progresso con la competizione rude che espone gli individui ai morsi della fame. Non c’è dubbio, in questo anno e mezzo, da che parte sia stato Draghi. Anche sul reddito di cittadinanza, non s’è mai unito al coro di chi voleva sopprimerlo, ma proponeva una riforma per cercaredi fare coincidere domanda e offerta di lavoro».
Anche da governatore della Banca d’Italia Draghi s’era detto convinto che ogni intervento di politica economica andasse soppesato in base all’impatto sulle classi più svantaggiate.
«In questa direzione vanno tutti i provvedimenti già adottati in difesa del reddito delle famiglie nella lotta all’inflazione. E anche il disegno complessivo del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza mostra una concezione keynesiana di intervento duraturo e strutturale sull’economia e sulla società italiana in grado di incrementare produttività e coesione sociale. A questa visione non è stata opposta un’altra di segno diverso ma di pari respiro, piuttosto un dissenso spicciolo in difesa di questa o quell’altra categoria: anche questo fa riflettere».
Sono prevalsi gli interessi particolari dei diversi populismi.
Nel discorso conclusivo Draghi ha rivendicato le riforme avviate dal suo governo: la riforma della giustizia, della concorrenza, del fisco, degli appalti.
«Purtroppo si è trattato dell’ultimodiscorso: per analogia storica m’è venuto in mente il commiato di Ferruccio Parri, davanti alla stampa estera, prima che venisse mandato via dalla presidenza del Consiglio. Il problema è che queste riforme difese da Draghi sono state presentate come imposizioni dell’Europa: volete soldi? Allora dovete fare le riforme. Bisognava far maturare nel paese la consapevolezza che tutto questo rispondesse prima di tutto a bisogni interni. La campagna elettorale del Partito Democratico dovrebbe ripartire da qui».
A proposito del rapporto con l’Europa: anche nell’europeismo diDraghi, nei giorni tragici della guerra ucraina, v’è traccia di una tradizione culturale socialistaliberale.
«Basta ricordare il primo articolo di Carlo Rosselli sull’Europa:
Europeismo o fascismo. Il titolo icastico è molto espressivo. Gli azionisti hanno restituito all’idea di nazione il suo valore democratico, facendo dell’Europa il luogo in cui si porta a più alto livello la coesione e l’iniziativa nazionale. Sotto questa bussola ideale si è svolto l’operato di Draghi, come aveva già fatto Ciampi. Patriottismo ed europeismo contro ogni tentazione nazionalista e sovranista».
Giovanni De Luna, storico dell’azionismo, l’ha definito “un fiume carsico” della storia repubblicana, capace di affiorare nei momenti di crisi e di transizione. Luglio del 1960, il Sessantotto, la fine degli anni Settanta, l’inizio dei Novanta.
Tutte le volte che occorreva inventare un nuovo progetto, l’azionismo è apparso il paradigma politico più efficace. Una regola che si è confermata in questo passaggio critico?
«Sì, condivido l’analisi. Ed essendo stato diretto testimone, non posso che ribadire il legame indiscutibile tra Draghi e Ciampi. Anche noi fummo mandati via in fretta e furia, allora da Achille Occhetto che credeva di vincere le elezioni. E vorrei ricordare che quando Ciampi fu eletto presidente della Repubblica a larga maggioranza, Rifondazione comunista non lo votò. Spesso nei confronti di questo filone culturale c’è stata una sorta di incomprensione a sinistra».
Si è manifestata anche con Draghi?
«Beh, se vogliamo considerare Conte come sinistra, mi sembra che l’avvocato del popolo segua lo schema di Mélenchon, facendosi interprete dello scontento e della rabbia sociale che pure ci sono nelpaese. Ma il sistema elettorale francese è molto diverso da quello italiano».
E risulta difficile accostare l’avvocato Conte alla sinistra.
Resta il fatto che il socialismo liberale al governo è sempre durato poco. Il governo Parri ricostruì l’Italia alla fine della guerra, ma resistette nel 1945 poco più di cinque mesi. Ezio Mauro ha scritto che al “grande borghese” Draghi nella sua opera di modernizzazione è mancato il sostegno della borghesia incapace di farsi classe generale e di influenzare partiti e opinione pubblica. È d’accordo?
«Mi sembra un’analisi giusta, anche se la responsabilità è anche di chi non ha saputo coinvolgere quella classe borghese. Non ne faccio tanto carico a Draghi, ma all’insieme dei partiti. E, ripeto, mi sembra grave che Draghi sia caduto proprio mentre tentava di coinvolgere tutte le forze sociali nel patto tra sindacato e impresa».
Sempre per continuare nell’eredità del socialismo liberale, lo storico De Luna rintraccia una sua cifra ricorrente nella capacità di selezionare la classe dirigente.
L’idea è sempre stata quella di trovare “i cento uomini d’acciaio”, personalità adeguate all’emergenza e capaci di esprimere il meglio del paese.
Draghi in fondo ha creato un gruppo dirigente all’altezza della sfida del tempo. E fino alla fine ha richiamato alla responsabilità una classe politica che nelle sue diverse componenti populiste ha dimostrato di non essere all’altezza di quella sfida.
«Sì, c’è stato questo appello alla responsabilità che è fallito. Deve riemergere un’etica della serietà, della preparazione e della consapevolezza che è propria della tradizione azionista. Io mi auguro che davanti alla scadenza elettorale non prevalga un’ottica minoritaria — non ci hanno capito, abbiamo perso — ma la convinzione che idee comequelle maturate dal Partito d’Azione possano essere elemento di sutura valoriale di una società moderna alle prese con problemi enormi».
Un’ultima nota, solo apparentemente marginale. Nel saluto finale ha colpito l’ironia di Draghi sul cuore del banchiere centrale. Anche l’ironia è una cifra culturale dei fratelli Rosselli, di Ernesto Rossi, di Altiero Spinelli: un modo per sdrammatizzare anche passaggi drammatici.
«L’hanno descritto come un banchiere algido, ma è difficile pensare che una riflessione intellettuale così approfondita non sia frutto di una passione, a prescindere che questa venga svelata o meno.
Alla fine Draghi ci ha voluto dire quali sentimenti provasse. A me resta l’impressione che i riconoscimenti nei suoi confronti siano arrivati fuori tempo massimo.
Forse qualcosa bisognava dirla prima».