Nudi, al freddo, senza pudori: la Roubaix va scontata fino in fondo. Non tutti arrivano (appena 95 su 174 nel 2021, l’anno santo di Sonny Colbrelli), ma una volta approdati al velodromo c’è un altro rito collettivo a cui non si può sfuggire: quello delle docce. La Roubaix è un dramma fin dopo il traguardo. Il viaggio all’Inferno non finisce né sul podio né sotto l’acqua bollente dei bus superaccessoriati dei team del World Tour, ma un centinaio di metri più in là.
C’è questo cubo di cemento, tozzo, disadorno, a cui nessuno sembra aver messo mano da quando fu costruito negli anni Venti del secolo scorso. È lì, in quelle due grandi stanze con i soffitti alti, non sul pavé, che i corridori ricevono questo battesimo profano e diventano qualcosa di diverso da prima.
L’anacronismo
Uno che ha corso una Roubaix è un reduce, un veterano, fa parte di una schiera di sopravvissuti. Se pensate che stiamo esagerando, che in fondo qui si parla soltanto di una corsa in bicicletta, si vede che non avete idea. La Roubaix è nata per preservare la memoria in un territorio difficile, violato dalle guerre e dalla miseria, e per sopravvivere ha bisogno di perpetuare l’anacronismo di tratti di pietre sfuggiti all’asfalto.
È una sfida che per rinnovarsi deve fermare l’avanzare il tempo, ed è in quel tempo cristallizzato che si corre ogni anno la Parigi-Roubaix. Quella che i corridori chiamano inferno, porcheria, mucchio di merda. Ma poi ci tornano, perché è la più bella del mondo.
Gli oggetti spariti: la cabina di Sanremo
Negli anni molti dei luoghi sacri del ciclismo sono spariti, spazzati via dalla civilizzazione o dalle esigenze dello spettacolo: la cabina telefonica della Milano-Sanremo è stata rottamata nell’estate del 2023, la cappella sul Muur non vede più passare il Giro delle Fiandre, ma le docce di Roubaix sono ancora lì che aspettano di lavare via le lacrime e il sangue dei prossimi eroi.
La cabina era proprio dove finisce il Poggio: si chiama pomposamente Piazza della Libertà ma è uno slargo tra un parcheggio, le Poste, una farmacia, un bar, un alimentari. C’è un rendering di un docente di architettura che ha firmato il progetto di riqualificazione, che annuncia che il quartiere «si prepara a diventare un luogo di incontro, cultura e socialità». Non c’era più posto per la cabina telefonica.
Era proprio dove finisce il Poggio, quell’insignificante salitella che dà sapore alla corsa più lunga, la Milano-Sanremo. Niente più che una collina, 3.700 metri al 4% di pendenza media, ma dopo quasi trecento chilometri diventa una montagna. In cima i corridori svoltano secco a sinistra per buttarsi in discesa verso l’Aurelia e puntare dritto verso il traguardo.
All’interno della curva c’era una vecchia cabina telefonica, numerata (era la 165), screpolata dal vento di sale, ormai inutile. I vetri sporchi, l’alluminio abraso, la porta sparita. Due anni prima che la smantellassero, nel 2021, soltanto 118 volte qualcuno era entrato in quella cabina per fare una telefonata. Troppo poco per pensare di salvarla.
Eppure per i corridori della Sanremo era un punto di riferimento: era lì che prendevi il tempo della scalata, lì che capivi di avere ancora una speranza di cambiarti la vita o ti rassegnavi a dover aspettare un altro anno per immaginarti primo sul traguardo di via Roma. Da lassù era possibile indovinare il futuro, eppure qualcuno ha pensato che fosse soltanto una cabina telefonica.
Il muro che non c’è più
In vetta a un’altra salita, il muro di Geraardsbergen, passavano le ambizioni di altri corridori, quelli che sognavano di diventare eroi nazionali nelle Fiandre. Sono 1.075 metri con una pendenza media del 9,3% e un picco decisamente brutale al 19,8% verso la cima, quando se alzi gli occhi vedi la cappella, costruita nel 1906 come meta per i pellegrini.
Sono appena cento metri di dislivello, e c’è il pavé a rendere la fatica ancora più feroce, in bicicletta è quasi come salire le scale. Secondo Cotacol, l’enciclopedia che censisce tutte le salite del Belgio, il Grammont (questo è il nome con cui il muur per eccellenza è conosciuto dai fedeli) è la salita più dura delle Fiandre. Qui tutti gli anni si svolge la doppia festa del Krakelingen e del Tonnekensbrand, patrimonio immateriale dell’umanità a detta dell’Unesco: è la festa del fuoco, simboleggia la fine dell’inverno e il benvenuto alla primavera.
Nel ciclismo è un segno anche più potente: a scoprire prima di tutti il Muur fu l’Omloop het Nieuwsblad, nel 1950, ma soltanto un mese dopo il Giro delle Fiandre se ne appropriò e un assolo di Fiorenzo Magni lo rese immediatamente leggenda. Quando il Giro delle Fiandre ha pensato di essere più importante della sua salita mitica, troppo fuori mano rispetto ai centri di interesse di sponsor e organizzatori, l’ha abbandonata.
Si fa così con gli amori che non fanno più battere il cuore, figuriamoci con i muri. Ma se la cabina telefonica è stata abbattuta, il Grammont è stato recuperato dal ciclismo: dal 2019, è la penultima salita dell’Omloop Het Nieuwsblad, ed è stato inserito nei percorsi della E3, della Brussels Cycling Classic, del Giro del Belgio e di quello del Benelux.
Il muro del pianto
Questa relazione del ciclismo con la sua storia è particolarmente potente nella corsa che ha da sempre lo sguardo rivolto al passato. «Almeno una volta nella tua carriera, dovresti fare una doccia a Roubaix – ha raccontato l’olandese Servais Knaven, che ha corso sedici edizioni consecutive della Roubaix vincendola nel 2001 – Sei lì con tutti gli altri corridori. Tutti sono stanchi e tutti hanno la loro storia da raccontare. È qualcosa di speciale. Sai che è dove venivano ragazzi come Merckx. Ti dà una connessione con la storia di questo sport».
Le docce sono il muro del pianto, il luogo in cui i corridori confessano uno con l’altro le sfortune, le cadute, le forature, gli infortuni. Lavano via il sangue, la polvere, le ferite, la paura. È freddo e tetro, ma potrebbe essere comoda e calda una doccia dopo 260 chilometri di inferno? Se tu l’inferno l’hai appena attraversato, perché dovresti avere paura di una doccia?
In origine era una scuola “all’aperto”, in cui si curavano i problemi di tubercolosi nei bambini. Le docce furono costruite negli anni Venti, cubicoli piastrellati con le catenelle per aprire l’acqua, ma fu solo nel 1943 che i reduci della Roubaix cominciarono a usarle. Fu così che diventò una leggenda nella leggenda, amplificata dalle foto crude e senza filtri dei corridori coperti di fango o polvere, feriti, stremati. Mentre l’acqua fredda scorre, i corridori tornano alla vita.
Dal 1996, l’anno del centenario, sulle docce ci sono le targhe di ottone con i nomi di chi è arrivato primo nel velodromo. Il belga Philippe Gilbert, che la Roubaix l’ha vinta nel 2019, la ricorda come «la doccia più bella della mia vita». Sarà per questo che Marc Madiot, vincitore nel 1985 e nel 1991 e oggi direttore sportivo della Groupama-FDJ, non vuole che i suoi corridori salgano sul pullman se prima non si sono fatti una doccia nella storia.
