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Nell’ultimo film di Sokurov, Fairy Tale (di cui “terzogiornale” si è già occupato qui), Hitler, Mussolini, Stalin e Churchill, identificati come i quattro cavalieri dell’Apocalisse del Novecento, sono in attesa di una remota e improbabile salvazione davanti alla porta del Paradiso. In effetti, secondo una concezione diffusa nella teologia ortodossa, alla fine dei tempi potrebbe esserci una restituzione universale, che comprenderebbe anche l’inferno e i dannati, sia pure passati attraverso una lunga e penosa purificazione. Come dice Alioscia nei Fratelli Karamazov di Dostoevskji: “Questo Essere c’è, e può perdonare tutto e tutti e per conto di tutti perché Lui stesso ha dato il suo sangue innocente per tutti e per tutto”; “riteniamo comunque che la bontà di Dio per opera di Cristo richiamerà tutte le creature a unica fine, dopo aver vinto e sottomesso anche gli avversari” (Origene, De principiis I, VI, 1).
Ma il Cristo che dovrebbe compiere l’opera ce la farà davvero a salvare il Führer e i suoi tre compari di limbo (Mussolini, Stalin, Churchill)? Pare davvero difficile la redenzione e il perdono per la serie inenarrabile di mali da essi compiuti, per il trauma estremo, che ha attraversato il Novecento; improbabile – come diceva Walter Benjamin – che il compiuto (il dolore) divenga incompiuto, e ciò che era rimasto incompiuto (la felicità) si compia. Perché forse la dismisura ha reso impossibile ogni speranza e la stessa dicibilità del trauma subito, come sosteneva Adorno a proposito di Auschwitz.
All’inizio del film, vediamo un Cristo piagato, sfinito dalla difficoltà dell’impresa, la sua voce si è fatta fioca e quasi inavvertibile. Accanto a lui, sdraiato in una bara c’è l’ectoplasma di Stalin, in una imitazione grottesca del Salvatore, che lo prende in giro e lo provoca, e come i soldati e i centurioni del Vangelo lo invita ridacchiando a chiamare il Padre perché lo salvi. In una sequenza successiva, oceani di morti inneggiano ancora a Hitler, si abbattono in onde sulla roccia da cui lui paternamente accarezza la testa delle ombre. Metafora del fatto che il mito dell’Anticristo non è finito e che un suo ritorno è possibile. Sono le sue vittime e i suoi soldati, e compaiono come fluttuazioni prive di contorno, avendo perso ogni connotato individuale, fusi e confusi nella massa e nella marea emotiva che la spinge all’identificazione col Capo (con l’ideale dell’Io, come ha spiegato Freud nei suoi saggi degli anni Venti). Solo assumono fisionomia distinta i pochi che sanno o hanno saputo ribellarsi, e ora alzano la testa e lo maledicono.
Cosa pensano di là dalla porta del cielo? Non è che ce lo rimanderanno indietro insieme agli altri cavalieri dell’Apocalisse per affrettare la fine del mondo? Nella sua intervista a Locarno, dopo la proiezione del film, Sokurov si è lasciato andare a questa strana ammissione: “Cosa c’è dietro questa porta, non crede che potrebbero aspettarli dietro questa porta i loro complici?”. Sempre che il traduttore abbia capito bene, sempre che non sia una battuta.
Ci troveremmo allora in un’altra sfera teologica, quella di una gnosi in cui il mondo è affidato a un dio minore che si serve dei quattro arconti del film per esercitare ciclicamente il suo dominio. Il compito del povero Cristo del film è davvero improbo. Comunque sia, vediamo l’immagine di un cupo Hitler, che si torce angosciosamente le mani, ripresa da un cinegiornale dell’epoca. Dei fantasmi in cui si sdoppia la figura del dittatore, questa è forse quella più autentica, oltre la mitologia spettacolare delle immagini pubbliche che caratterizza gli altri suoi sosia-simulacri. Sokurov l’aveva già utilizzata in uno dei suoi paradossali documentari, La sonata per Hitler, e del resto a Hitler aveva già dedicato uno dei film della quadrilogia del potere, Moloch.
È così anche per gli altri duci: vivi solo nei loro duplicati, nei diversi simulacri-fantasma delle loro apparizioni pubbliche, labili, effimeri, inesistenti in se stessi, tranne che per un fugace apparire della loro natura disfatta: come nel volto smagrito e sofferente di Mussolini, tratto da un cinegiornale di Salò, in cui sembra scomparsa la buffoneria delle altre figure, o in una variante grassa e svampita di Churchill, qui presente come rappresentante dell’imperialismo coloniale e delle sue stragi, che hanno preparato e anticipato quelle all’interno dell’Europa. Per tacere di un’immagine di Stalin, con gli occhi persi in una occasionale fissità paranoica, ben diversa dal paternalismo indulgente di cui ricopre le altre sue apparizioni.
Perché poi Churchill, che è considerato uno dei più fieri avversari del totalitarismo, si trova in simile compagnia? In realtà, è qui presente a titolo emblematico e simbolico: non tanto perché ha elogiato Mussolini ai suoi inizi, perché ha distrutto città tedesche e italiane in una violenza mimetica senza pietà, e neanche per la strage di Gallipoli, nella Prima guerra mondiale, benché questi e altri peccati non veniali potrebbero essergli addebitati. È qui per una colpa che va al di là della sua persona, e riguarda il nesso tra imperialismi coloniali e totalitarismo: “Quanto più inadatta era la nazione a incorporare popoli stranieri, tanto maggiore era la tentazione di opprimerli. In teoria, nazionalismo e imperialismo sono separati da un abisso; in pratica, l’abisso è stato colmato dal nazionalismo tribale e dall’aperto razzismo” (H. Arendt). La democrazia che si limita all’Europa e tollera e incrementa il dominio coloniale più osceno e violento nel resto del mondo non è vera democrazia, ed è complice e premessa del totalitarismo.
I sosia-simulacri mostrano le svariate figure in cui i nostri condottieri hanno cercato di configurarsi in forma sublime, con immaginose uniformi, copiando ognuno le pose e le giacche dell’altro, gareggianti in eleganza funerea; poi Sokurov li riduce, invece, alla loro dimensione grottesca, ove più che dei destini del mondo parlano del proprio sarto o – come Hitler – si lamentano di non aver potuto sposare la nipote di Wagner ed essersi dovuto accontentare di Eva Braun. Per questo aspetto, il film ricorda i toni comici del Grande dittatore di Chaplin; ma in effetti considera una realtà molto seria, e cioè la sovranità grottesca che caratterizza i potenti del Novecento (e di oggi! il riferimento ai duellanti attuali è ovvio e trasparente), la mancanza di qualsiasi legittimità che provenga da Dio o dal popolo: “Chiamerò grottesco un discorso o un individuo che detengono per statuto degli effetti di potere di cui, per la loro qualità intrinseca, dovrebbero essere privati (…). Il potere politico (…) può darsi, si è effettivamente dato la possibilità di far trasmettere i suoi effetti e, ancor più, di trovarne l’origine, in un recesso che è manifestamente, esplicitamente, volontariamente squalificato dall’odioso, dall’infame, dal ridicolo” (M. Foucault).