Iran’s protesters have had enough after Mahsa Amini’s death
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24 Settembre 2022Giorgia Meloni, vincitrice annunciata delle elezioni politiche, perde la calma di fronte alle contestazioni di piazza perché rivelano la debolezza della sua egemonia. E mostrano l’esistenza di una generazione che non si rassegna a subire
Molti e molte di loro sono nati tra il 1999, anno della rivolta di Seattle, e il 2003, nei mesi in cui Bush Il Giovane invase l’Iraq. Alcuni, addirittura prima. Come nella trama di un romanzo di fantascienza distopica, sembrano gli unici a non aver smarrito il senno in un mondo in cui gli adulti si agitano smarriti e a volte incattiviti.
Li abbiamo visti in questi giorni, durante questa campagna elettorale apatica e rassegnata, a piccoli gruppi, in forme spontanee, caotiche e anche ingenue, presentarsi ai comizi di Giorgia Meloni per rappresentarle il loro dissenso. È un dissenso esistenziale prima che politico: anche secondo i rilevamenti statistici Fratelli d’Italia si piazza al quarto posto nelle preferenze elettorali giovanili. Non era mai accaduto, negli ultimi trent’anni, che lo schieramento che vincesse le elezioni lo facesse nonostante e contro l’indicazione di chi ha meno di trent’anni. Il che conferma che per un ragazzo o una ragazza tra i 18 e i 24 anni è inconcepibile prima che ingiusto che si discriminino le persone in base alla cultura, al genere, al luogo di provenienza geografico. Chiedono reddito perché sanno che il lavoro è diventato quel che è. Non credono alle promesse di piena occupazione a colpi di concessioni alle imprese. Si interessano di clima e ambiente, di femminismo, decolonizzazione e migranti; per farlo disegnano mappe geografiche e sociali che non prevedono i confini degli stati e l’esaltazione delle sovranità nazionali.
Ci aveva provato, la leader, a disinnescare le proteste invitando furbescamente un attivista Lgbtq a salire sul palco di Catania. Poi si è decisa a gettare la maschera e chiedere l’intervento del Viminale. Il senso è chiaro: bene le piazze, ma che siano accondiscendenti. Secondo la narrazione che lei stessa ci ha consegnato, Giorgia Meloni ha fatto ingresso nella politica esattamente quando aveva l’età di quelli che oggi la disprezzano. Racconta di aver scelto le sezioni blindate del Movimento sociale italiano e la vita frustrata nelle nicchie riservate alla destra neofascista per reazione alle difficoltà della sua famiglia, per supplire un padre assente (e, ça va sans dire, «comunista»). Da questo posizionamento è salita ai piani alti della politica. A lei piace dire che la sua comunità maledetta ha serrato i ranghi ed è uscita dal ghetto. Ma come i e le giovani mostrano di aver compreso benissimo, con l’intuito di chi ha il cervello fresco e l’immediatezza di chi non aderisce a schemi precostituiti, la strada percorsa da Meloni non è quella impervia delle costruzioni controcorrente di un’altra forma della politica.
Ormai quasi trent’anni fa, i sentieri delle destre italiche sfociarono nei viali lastricati d’oro del berlusconismo: la normalizzazione del fascismo passa per il mainstream, per la cultura dominante. Passa dalle pappardelle ripetute in prima serata nelle televisioni della Seconda repubblica, revisionismi da talk show accolti con impazienza da una borghesia piccola e avida che non vedeva l’ora di liberarsi delle implicazioni etiche prima che politiche della Resistenza. È a loro che parla, l’aspirante premier, quando nei suoi comizi dice con gli occhi infuocati che finalmente dal 26 settembre non dovranno vergognarsi di dire quello che pensano veramente.
Tutto questo Meloni lo sa bene. Sa di non poter vantare alcun blasone anticonformista, tutto al contrario. Per questo, nonostante i sondaggi le consegnino una comoda maggioranza (modellata dall’alta astensione, dall’incapacità dei suoi avversari di costruire una coalizione, dalle difficoltà delle sinistre di farsi rappresentanza e soprattutto dallo zoccolo duro di elettori anziani del centrodestra), reagisce alle contestazioni di decine di ragazzi e ragazze nelle piazze dei suoi comizi tradendo una postura tipica degli anni della militanza missina giovanile: la sindrome da accerchiamento.
Eppure dovrebbero essere i contestatori e le contestatrici a sentirsi circondate da elettori ultracinquantenni che senza troppa convinzione e con rassegnazione tutt’altro che entusiasta si preparano a consegnare il paese alle destre. Dovrebbero essere queste sparute minoranze rumorose a farsi prendere dallo sconforto di un paese che decide di consegnarsi questa destra. Invece, i cartelli che compaiono con spregiudicata imprudenza nelle piazze di Meloni, a ricordarci che nessuno è straniero e che la politica non può decidere dei nostri corpi e dei nostri amori, creano tanto sconcerto presso la donna sola al comando perché dicono che l’annunciata vittoria della destra è frutto di un’egemonia debole e ancora più volatile di sempre.
La vittoria di Silvio Berlusconi aveva avuto il senso di indicare che con la crisi del welfare e il deperimento della rappresentanza avrebbe dominato la comunicazione. Persino l’incredibile ascesa al potere del Movimento 5 Stelle aveva confermato questa primazia e indicato una strada scombinata eppure rivelatrice: l’irruzione nei palazzi di gente in quanto tale dopo anni di chiusura a riccio della politica.
La corsa di Meloni è tre volte solitaria: perché non ha avversari elettorali; perché dirige un partito che nel giro di qualche dozzina di mesi ha almeno quadruplicato il consenso pur essendo privo di infrastrutture organizzative, strumenti di elaborazione teorico-culturale e personale politico adeguato; infine perché il consenso per la sua persona non ha riferimenti sociali e neppure connessioni sentimentali che non siano la trita e inutile eredità delle anime nere della destra miracolata dal berlusconismo e rigenerata dai populismi.
Sarà una vittoria senza festeggiamenti, la presa senza entusiasmo di un paese depresso e spaventato. Il che purtroppo non basta a garantire che il prossimo governo sia fragile e in fondo innocuo. Tutt’altro: la forza di chi vuole dichiararsi sovrano sulle vite e sui territori, tracciando confini e scardinando diritti, si nutre allo svuotamento dello spazio pubblico e delle sue relazioni. La repressione potenziale è direttamente proporzionale alla marginalità del potere nelle dinamiche sociali e produttive. Anche per questo l’imprudente scommessa dei contestatori di Meloni ha colto nel segno.
* Giuliano Santoro, giornalista, lavora al Manifesto. È autore, tra le altre cose, di Un Grillo qualunque e Cervelli Sconnessi (entrambi editi da Castelvecchi), Guida alla Roma ribelle (Voland), Al palo della morte (Alegre Quinto Tipo).