novecento
Nadia Terranova
Nel 1956 Tillie Olsen scrive il racconto Sono qui che stiro, che viene incluso nella lista dei migliori racconti americani di quell’anno e aprirà la successiva raccolta intitolata Fammi un indovinello (anche il racconto eponimo, del 1960, sarà incluso nella stessa lista e in più vincerà il premio O.Henry). Poiché rifletto su tutto, anche sulle coincidenze, non ho mai potuto fare a meno di notare che il 1956 è l’anno in cui è nata mia madre, e anche quello in cui Olsen, con Sono qui che stiro, scrive le sue pagine più nude e toccanti su cosa significhi essere madre, essere figlia. Ho letto per la prima volta questo racconto quasi vent’anni fa, quando Fammi un indovinello era nel catalogo della scomparsa editrice Giano, e da allora non ho mai smesso di tornarci su, è il mio racconto americano preferito di tutto il Novecento e ho continuato a consigliarlo e regalarlo anche quando era fuori catalogo e lo fotocopiavo clandestinamente come si fa con i testi di culto. Adesso è tornato insieme a tutta la raccolta, grazie all’editore Marietti1820 e alla magnifica traduzione di Giovanna Scocchera che incarna con empatia e rispetto una prosa fatta della lingua sudicia delle bettole del porto, del rimuginare attento e nevrotico delle casalinghe, delle frasi asciutte e terribili che ci scambiamo con le persone che amiamo e dell’assenza rilucente di tutto ciò che nelle famiglie non viene detto.
L’America operaia di questi racconti era aliena alla maggior parte dei critici letterari che avrebbero giudicato il suo lavoro, eppure l’opera di Tillie Olsen non utilizza la denuncia sociale come ricatto per farsi notare e rinuncia consapevolmente a confondere la militanza con la letteratura, nonostante entrambe vengano dalla lotta. Sono qui che stiro è un racconto commovente, perché senza patetismo spiega come l’appartenenza a una classe sociale non privilegiata limita e danneggia lo sviluppo dei bambini, smontando la retorica sugli orizzonti del futuro. Olsen, nata nel 1912 da immigrati ebrei russi, aveva respirato in famiglia il socialismo e a vent’anni era già membro della Lega dei giovani comunisti. Per via di Marx aveva chiamato Karla la prima figlia, nata quando era molto giovane, ritrovandosi presto da sola perché il padre della bambina l’aveva abbandonata. Allora aveva cominciato a lavorare senza sosta: cameriera, operaia, saldatrice, lavandaia, sindacalista nella San Francisco degli anni Trenta, dove s’innamora di nuovo e mette al mondo altre tre figlie. Il tempo per la scrittura è un miracolo, un tempo sognato e ritagliato con la forza, mentre intorno il clima è ostile e il maccartismo la ostracizza ulteriormente.
Olsen viene arrestata due volte, sorvegliata dall’FBI, ma niente di tutto questo finisce esplicitamente nei racconti di Fammi un indovinello, dove tutta la biografia dell’autrice entra piuttosto per strade invisibili e precise in una traslazione letteraria altissima che, interrogandosi sulla forma e sulla scelta serrata delle parole, mette al centro senza le forzature dell’epica la ricerca di sé tra fallimenti e mancate realizzazioni. Nei racconti di Tillie Olsen, essere sé stessi non è una vittoria ma una spina nel fianco dei giorni, è l’esercizio di una resistenza alla desolazione, il fiore che sbuca a forza nella società razzista e classista che opprime e disillude.
Secondo Rebekah Edwards, che firma una delle due prefazioni del libro, in Fammi un indovinello è possibile seguire un percorso di Olsen «da giovane attivista a matura narratrice» attraverso storie che insieme spezzano il cuore e lo confortano. La forma sperimentale del flusso di coscienza e quella ancora più sismica e ardita della variazione del punto di vista all’interno di una struttura breve richiedono un’attenzione esente da distrazioni, ma la fine di ogni racconto è una ricompensa, la sensazione di aver toccato da molto vicino le questioni umane più quotidiane e universali. In Ehi marinaio, che nave? assistiamo al lento degradarsi di una vita consumata dal lavoro e dall’alcolismo, mentre in O sì una madre sperimenta su di sé, dalle parole della figlia, la tentacolarità del razzismo nelle dinamiche di relazione tra bambine e adolescenti. In entrambi i racconti l’amicizia è una zona in cui le persone possono aggrapparsi l’una con l’altra senza per forza salvarsi: la fiducia di Tillie Olsen negli altri esseri umani e in una solidarietà che guarda al futuro non verrà meno neanche in vecchiaia. Fammi un indovinello racconta un matrimonio di lungo corso, messo alla prova da eventi storici, dall’incrinarsi di un comune sguardo politico, dall’età che inasprisce le differenze. In questo racconto Olsen utilizza la musicalità dell’yiddish per compromettere l’inevitabile lirismo di affermazioni apodittiche, con un risultato linguistico di eccezionale efficacia.
Laurie Olsen, figlia di Tillie, ricorda nell’altra prefazione che l’opera della madre, molto amata tra gli altri da Dorothy Parker, fu accostata a quella di Balzac e alle poesie di Dickinson. Spero che anche in Italia abbia ora il posto che merita, e che vengano tradotti anche i saggi di Silences, diventando un punto di riferimento per parlare di femminismo a partire dalle classi sociali, e il romanzo capolavoro Yonnondio, che contribuirà a rinforzare anche in questo secolo la ricezione estetica di una tra le più immense delle nostre maestre.