Il futuro delle città
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di Stefano Massini
«Mi sono perso… » , così racconta di aver detto Steinbeck a un poliziotto newyorchese che lo aveva notato in vago stato confusionale, al volante del suo furgone-camper, all’alba degli anni ’ 60. In quell’uomo perso si racchiude il ritratto di un autore ancora essenziale per capire l’America e il Ventesimo secolo, con tutto che lui stesso si dannava di non comprenderli. Perché se a tutti accade, almeno una volta, di perderci, ciò che rende paradossale l’episodio finale di Travels with Charley è che Steinbeck era di ritorno a New York dopo un viaggio coast- to- coast, miglia e miglia di biopsia nella carne viva dell’America, dalle scogliere del New England alle palme del Pacifico passando dagli spazi infiniti del Midwest, eppure non riusciva a orientarsi fra i divieti di transito e i sensi unici della Grande Mela, laddove il brulicare di uomini e topi è inconcepibile, straziante e straniante. Ma perché, per raccontare Steinbeck, inizio da un titolo minore e di fine carriera come Travelswith Charley?
Per la semplice ragione che quel « mi sono perso… » irradia un manifesto di scrittura, un testamento e un resoconto esistenziale, oltre che il sigillo illuminante di una vita intera solcata nello sforzo di raccontare le asimmetrie dell’umano convivere, i baratri e gli abomini di altre vite perse, in cui i punti interrogativi sono destinati a rimanere tali, e la metropoli con la sua grancassa non solo non li annulla ma li moltiplica. Nel 1960 On the road era stato pubblicato da soli tre anni, già veniva celebrato come una Bibbia, e fu esattamente in quel contesto che Steinbeck, più anziano di Kerouac e già più che acclamato, sentì il bisogno di vivere un suo proprio on the road, alla ricerca di un Paese che scopriva di non conoscere, di non possedere, di non aver mai profondamente incontrato, sebbene il suo romanzo più famoso si incentrasse in fondo proprio su un’epopea di viaggio sulla Route 66.
Per cui, quasi sessantenne, si mise alla guida di una specie di furgone accessoriato (lo ribattezzò Ronzinante) e accompagnato da un barboncino con velleità da Sartre canino, iniziò la sua inchiesta nomade che non è tanto geografica quanto antropologica. E come potrebbe non esserlo, trattandosi di Steinbeck? Quasi un quarto di secolo era trascorso dal travolgente clamore diUomini e topi e da Furore, squarci di inaudita ferocia sui mattatoi della lower lowerlower class, che in Italia avevamo letto nella traduzione di Cesare Pavese. Steinbeck negli anni non era cambiato: la sua epica degli ultimi, incarnata fino dagli albori nel meticciato ispanico- californiano, continuava a ispirargli l’urgenza quasi evangelica di un Golgota in cui lo scrittore, narrando, si fa redentore di masse allo sbando. Seppure noto nel mondo, prossimo al Nobel ( lo riceverà nel ’ 62) e corteggiatissimo da Hollywood, Steinbeck con i capelli bianchi rimane il ragazzo inquieto nato in quella valle dell’Eden fra le lattughe e i cavolfiori di Monterey, dove solo i ciechi non avrebbero visto la disperazione delle truppe agricole buttate nella grande guerra della sopravvivenza, sempre falcidiate da crisi economiche, Grandi depressioni e Armageddon mondiali che sul più bello ti strappano pure i figli.
È lì, in quella Guernica senza bombe, che a distanza di anni Steinbeck sente ancora di voler e dover capire, di voler e dover raccontare, tanto da mettersi in viaggio come un Bruce Chatwin nella Patagonia dello zio Sam, rabdomante di storie, di ritratti, di soggettive, di tutto ciò che sta nel perimetro del cosiddettomateriale umano, per cui a farlo vibrare è lo sguardo dell’operaio, il dettaglio del commerciante, l’odio spudorato fra whites e blacks a New Orleans, il non detto che spiega ricettacoli di rabbia nella reticenza di una donna o vibra nella licenza di un vocabolo, il tutto con una perfetta maestria nella costruzione dei dialoghi, in cui Steinbeck raggiunge un raro nitore realistico. Curiosamente, negli stessi mesi, alle nostre latitudini, anche Pier Paolo Pasolini svolgeva il suo litoraneo on the road su una Fiat 1100, anche lui percependo nel paesaggio le stimmate di un calvario socio- politico, anche lui interrogando l’umanità sul crinale fra sfruttamento e sviluppo, anche lui dilaniato dalla parabola del mezzadro che a Taranto rinuncerà alla masseria per entrare, operaio, nella nuova cattedrale industriale della futura Ilva. E quando arriva a Ostia, in un temporale “ blu come la morte”, sentiamo che anche Pasolini avrebbe potuto pronunciare quel « mi sono perso » che da lontano lo lega a Steinbeck e al suo ultimo traduttore, Luciano Bianciardi, la cui discesa negli inferi minerari di Ribolla palpita dello stesso umanesimo con cui sono ritratte le masse di Salinas. Ed ecco un possibile baricentro per comprendere il fenomeno Steinbeck, e la ragione del suo profondo incidere nella memoria letteraria occidentale: egli colse l’attimo circoscritto e drastico di un passaggio, quello che ci avrebbe condotto all’insostenibilità di un sistema economico, così come stiamo appurando a distanza. Che narrasse la migrazione forzata dei Joad dall’Oklahoma o le umiliazioni dei braccianti nei ranch, Steinbeck annunciava senza mezzi termini che il prezzo del benessere e del consumismo sarebbe stato altissimo, e non solo che la sopravvivenza degli Uomini avrebbe comportato la mattanza dei Topi, ma che il futuro ( vale a dire noi) avrebbe pacificamente accettato la necessità di due caste, sfruttati e sfruttatori.
Si è spesso detto che Steinbeck — come Gertrude Stein, come John Fante — convertiva in incubo il sogno americano. Io mi spingerei oltre, perché l’irreversibilità dei servi della gleba raccontati nei suoi libri anticipa l’eutanasia politica delle masse, il fallimento del marxismo e dei diritti dei lavoratori, e quindi il crepuscolo di quell’idea di avvenire che ha ispirato battaglie, bandiere e manifesti. Mentre ci aggiriamo fra rottami e relitti, la profezia di Steinbeck risuona lucida, spietata, spiazzante: o Uomini o Topi. Benvenuti nel Terzo Millennio.