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1 Dicembre 2024Scrittori statunitensi Molteplici forme narrative e eterogenei personaggi sfilano in una elegante distopia sul cambiamento climatico, tra incendi, tempeste di polvere, inondazioni: «Diluvio», da Einaudi Stile Libero
Con il suo romanzo di esordio, Ohio, pubblicato nel 2018, l’allora trentacinquenne Stephen Markley, laureato presso il prestigioso Iowa Writers Workshop, si era imposto come ultimo esponente di una «nuova tradizione» del romanzo americano – inaugurata dalle Correzioni di Jonathan Franzen – nella quale la sperimentazione e la ricerca di nuove forme cedevano il campo a un recupero del realismo; ma soprattutto alla stipula di un vero e proprio patto con il lettore, al quale non si chiedevano sforzi erculei o voli pindarici, ma solo la disposizione a seguire un intreccio complesso di storie e personaggi, con la garanzia che, all’ultima pagina, i conti sarebbero tornati.
Inaugurato dal funerale di un ex campione di football di New Canaan – cittadina della Rust Belt colpita dallo spopolamento e dalla crisi dell’industria siderurgica –, arruolatosi dopo l’11 settembre e morto in Iraq, Ohio seguiva le sorti di quattro personaggi che non avevano partecipato per varie ragioni al rito funebre, ma che tornavano nella città in cui erano cresciuti e tentavano di esorcizzare la morte, che stava mietendo le sue vittime tra guerre all’estero e tossicodipendenze, aggrappandosi «all’idea di ciò che era New Canaan, dei valori che rappresentava, le speranze che creava».
Se in Ohio Markley proponeva – con una serie di eccessi dichiarativi e di sbilanciamenti retorici a tratti infastidenti, alternati a prodigi di tecnica narrativa – un modello di scrittura fluida e collettiva, capace di prendere la temperatura a un Midwest disilluso e carico di rabbia – in Diluvio (traduzione, ottima, di Manuela Francescon e Cristiana Mennella, Einaudi, pp. 1304, € 26,00) Markley ha decisamente alzato il tiro, tratteggiando un colossale affresco distopico che attraversa l’America cronologicamente – si parte dall’ultimo anno della seconda presidenza Obama per arrivare oltre il 2040 – e geograficamente – con scene ambientate a New York e a Washington, a Los Angeles e nelle campagne del Midwest.
Al centro del romanzo, le progressive, catastrofiche conseguenze del cambiamento climatico, tra tempeste di polvere che fanno rimpiangere quelle che, negli anni Trenta, avevano ispirato Furore di Steinbeck, inondazioni, incendi che riducono Hollywood e le sue ville a un ammasso di rovine, rivolte e saccheggi. Ma soprattutto prende forma, sin dalle prime pagine, un nucleo narrativo e un campionario umano molteplice e complesso, in cui sfilano personaggi che, attraverso le loro vicende pubbliche e private, accompagnano ogni snodo della trama, contribuendo a umanizzarla e avvicinarla al lettore. In rapida successione, appaiono sulle pagine di Diluvio Tony Pietrus, oceanografo e ricercatore che scopre nei clatrati di metano e nel loro «comportamento in condizioni variabili di temperatura e pressione» uno dei segnali di un cambiamento catastrofico e quasi irrimediabile; Kate Morris, carismatica e anticonformista, leader del movimento ambientalista Fierce Blue Fire e pronta ad allearsi con forze politiche razziste e antiabortiste, purché sostengano il suo programma per un mondo a emissioni zero; il mite compagno di Kate, Matt, che ne sostiene gli sforzi e ne sopporta, seppure a fatica, le infedeltà; Shane, una madre single che, insieme a cinque compagni, forma il nucleo operativo di un’organizzazione dedita all’ecoterrorismo; Keeper, un ex tossico che, liberatosi dalla dipendenza dall’Oxycontin, cerca il suo riscatto personale aderendo al culto religioso inaugurato da un ex attore hollywoodiano, ora noto semplicemente come il Pastore; Jackie, ex genio della pubblicità trasformatasi in lobbista di successo; Ash, matematico geniale quanto dissociato, il cui talento di statistico si è piegato alle esigenze di Washington e di una scienziata convertitasi alla politica.
In tutta la prima parte di Diluvio – più di seicento pagine – Markley costruisce la propria distopia con un’eleganza e una varietà di toni e forme narrative che destano stupore. Alterna capitoli in prima persona – quelli dedicati all’ascesa di Kate Morris, filtrata attraverso lo sguardo insieme perplesso e partecipe di Matt, per esempio – ad altri in terza, con una continua variazione dei punti di vista, o in seconda – le vicende di Keeper e della sua deriva tossica. Nelle parti incentrate su Shane si aprono continui riquadri che forniscono ulteriori dettagli sui personaggi incontrati dalla donna sul proprio cammino o sull’evoluzione delle sue idee e del suo programma politico; non mancano anche piccole sezioni nelle quali – à la Dos Passos – sono riportati articoli di giornale e titoli di testa di tabloid, per dare conto di un dibattito pubblico immaginario lungo più di venticinque anni. Tanta polifonia e ricchezza di voci e tecniche narrative – qui, come e più che in Ohio, non esente da un certo compiacimento – assicura al romanzo un ritmo godibile, e permette a Markley di mantenere un sostanziale equilibrio tra una fertile materia umana e l’esposizione di temi «apocalittici», che necessitano di un ampio substrato teorico per essere comprese in tutte le loro implicazioni. Anche alla politica e alle manovre di palazzo, senza distinzioni tra i due maggiori partiti americani, viene riservato un ampio e informatissimo spazio, descrivendo come dietro una patina ambientalista si nasconda un sostanziale asservimento alla logica delle lobby dell’industria estrattiva.
Accanto agli intrighi di potere, prende forma un mondo sempre più dominato dall’intelligenza artificiale e dalla manomissione sistematica e propagandistica della realtà, e nel raccontarlo Markley ricorre alla satira, forma che non sempre padroneggia al meglio. Ma, a vantaggio del lettore, la realtà torna a occupare il primo piano nelle pagine mosse e drammatiche dedicate alle catastrofi ambientali, che ricordano da vicino, pur non eguagliandone la potenza, quelle dell’Ombra dello scorpione di King (più volte citato nel romanzo). E che vengono magnificamente prefigurate nelle prime pagine, dove Pietrus, subito dopo aver ricevuto sul posto di lavoro una lettera minatoria, ha una visione, devastante nella sua bellezza, del futuro che, sotto i ghiacci, si sta già preparando per l’umanità: «Le pareti del laboratorio, invece di richiudersi come una tomba, erano arrivate ad altezze e profondità infinite. Laggiù, nella vivida oscurità blu, nell’estasi fredda e schiacciante della pressione, c’era un calore impercettibile. I tumuli di ghiaccio giallo sporco – il colore dell’urina sulla neve – colavano. Grappoli di candidi reticoli congelati, cristalli opachi, spumeggiavano come Alka-Seltzer. Oppure eruttavano dalle crepe nella roccia, piccole flatulenze nel buio che mandavano in alto frotte di bolle grosse come sassolini. O gorgogliavano da invisibili pori nel sedimento del fondo marino, formavano perline che restavano attaccate per un attimo e poi si liberavano da un soffice tappeto di sabbia. Sfrecciando avanti e indietro, salivano nell’acqua gelida. Una poesia folle scarabocchiata negli angoli non visti delle distese oceaniche».
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