monica perosino
inviata a Bürgenstock
L’integrità territoriale dell’Ucraina deve essere la base di qualsiasi accordo di pace e, allo stesso tempo, il dialogo tra tutte le parti è necessario per porre fine alla guerra. È questo il cuore della dichiarazione finale del summit globale per la pace che nel fine settimana si è tenuto a Bürgenstock, in Svizzera. Ieri sera, mentre gli ultimi convogli di auto blindate lasciavano il resort a picco sul lago di Lucerna, la domanda sospesa era ancora se il “successo diplomatico” ottenuto nella due giorni di trattative fosse sufficiente a un’effettiva svolta verso la fine della guerra. Probabilmente, come ammesso dallo stesso presidente Zelensky, sono stati compiuti i «primi passi verso la pace», ma la strada è ancora lunga. Non tutti i partecipanti alla conferenza (92 Paesi e 8 organizzazioni internazionali) hanno sottoscritto il documento finale: il perimetro da cui partire sancito ieri a Bürgenstock è stato approvato e condiviso da 79 Nazioni con una lista di defezioni che comprende giganti come India, Arabia Saudita, Messico, Indonesia e Sudafrica. A sfilarsi anche Thailandia ed Emirati Arabi Uniti, che erano rappresentati da ministri degli Esteri o inviati di livello inferiore, come pure il Brasile, che partecipava però come osservatore. Nessun Paese facente parte del Brics ha insomma condiviso i punti elaborati in Svizzera. Ha firmato invece la Turchia, che più volte ha provato a fare da intermediaria fra Kiev e Mosca.
Tra i firmatari emerge una geografia rappresentativa dei cinque continenti e, realisticamente, forse meglio non si poteva fare. Sono a bordo Paesi “ambigui” come Ungheria e Serbia, ad esempio, e «solo pochi giorni fa si diceva che l’Arabia Saudita non sarebbe nemmeno venuta – ha detto il ministro degli esteri ucraino Dmytro Kuleba -. Il fatto che fosse qua dimostra che è impegnata nel processo di pace: è nella partita». Una partita che, però, Riad avrebbe voluto giocare con la Russia, non invitata al summit e, inevitabilmente, con la Cina.
Insomma, se l’Occidente, dagli Usa alla Gran Bretagna e l’ Europa fino al Giappone, sostiene compatto l’Ucraina, il Sud Globale sembra ancora lontano. Volodymyr Zelensky si è detto comunque soddisfatto: «In 80 hanno firmato subito, per me è un grande successo». «Altri – ha aggiunto – hanno deciso di non firmare: dobbiamo rispettare le opinioni di tutti, arriveranno».
Il testo su cui si è trovato un accordo contiene tre impegni che, seppur “annacquati” per trovare più consenso possibile, mettono in chiaro principi importanti: In primo luogo, le centrali e gli impianti nucleari ucraini, inclusa la centrale di Zaporizhzhia, «devono funzionare sotto il pieno controllo sovrano dell’Ucraina e la supervisione dell’Aiea. Qualsiasi minaccia o uso di armi nucleari è inammissibile». In secondo luogo, «la sicurezza alimentare globale non deve essere in alcun modo usata come arma. I prodotti agricoli ucraini dovrebbero essere forniti in modo sicuro e gratuito ai paesi terzi interessati». Infine, «tutti i prigionieri di guerra devono essere liberati mediante scambio totale. Tutti i bambini ucraini deportati e sfollati illegalmente, e tutti gli altri civili ucraini detenuti illegalmente, devono essere rimpatriati in Ucraina». Impegni non vincolanti ma dal forte peso politico e diplomatico. E ora Kyiv vuole la piena partecipazione globale, e dunque propone un modello itinerante in diversi Paesi, al livello di «consiglieri sulla sicurezza e ministri», per poi puntare ai leader e «arrivare presto a un secondo summit», questa volta aperto anche alla Russia. L’Arabia Saudita si conferma come possibile ospite. Ma è tutto ancora molto prematuro, anche se il lavoro sottotraccia è già iniziato, mentre il Cremlino continua a sparare, sia sul campo di battaglia che con le parole: «Zelensky dovrebbe pensare all’offerta di pace di Putin perché la situazione militare al fronte è peggiorata», torna a dire il portavoce Dmitry Peskov, che poi accusa il presidente ucraino di essere «illegittimo» in virtù della scadenza del suo mandato. Peskov parla e, magicamente, la piccola cittadina di Stans, alle pendici del Bürgenstock, si riempie di biglietti attaccati alla bell’e meglio che dicono: «Ridate le elezioni agli ucraini». La «propaganda arriva ovunque», sorride amaro un delegato francese.
La Svizzera insiste sulla diplomazia inclusiva e tende ancora la mano a Putin sostenendo che «se dovesse venire in Svizzera per un vertice di pace potremmo derogare agli obblighi» di arresto come chiede la Cpi. Ma «la pace non significa resa, come Putin sembra suggerire», ha ribadito Giorgia Meloni in plenaria. «Confondere la pace con la soggiogazione sarebbe un pericoloso precedente per tutti. L’Italia ha sempre fatto la sua parte e non ha intenzione di voltare le spalle a Kyiv». Nessun Paese «accetterebbe mai i termini vergognosi di Putin», le ha fatto eco la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen: «Nessuna nazione responsabile può dire che sia una base ragionevole per la pace. Sfida la Carta delle Nazioni Unite, sfida la moralità fondamentale, sfida il buon senso».
Solo le prossime settimane, mesi, potranno decidere se la conferenza di pace svizzera produrrà un impatto concreto sul corso della guerra, con l’assenza di Mosca e la Cina e il Brasile intenti a tracciare percorsi alternativi. Intanto c’è la dura realtà sul campo. Zelensky lo ha ammesso: «Le armi che gli alleati ci hanno dato sono sufficienti a vincere? No». Ma è certo che Pechino, che «ha influenza politica sulla Russia, è possa aiutarci. Abbiamo un solo nemico: Putin. Lui combatte ormai per se stesso, sa che è isolato. E lo sa anche la Cina, credetemi».
Ora è tutta una questione di tempo, con un orizzonte che, ormai secondo diverse fonti diplomatiche, potrebbe essere aprile 2025, il mese in cui, se l’Ucraina resiste, potrebbe finire la guerra.
Oggi invece solo una cosa è certa, come ha detto il presidente della Finlandia Alexander Stubb, «per parlare di pace da qualche parte bisogna pur cominciare».