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Il rumeno Bradatan ha scritto un saggio su quattro figure: da Weil a Cioran, Gandhi e Mishima «È la cartografia di un tema rimosso Con la loro riflessione ci mostrano la via della finitezza e dell’umiltà»
«Gli anglosassoni sono perfezionisti. In America e in Inghilterra c’è una sola parola per descrivere il fallimento, failure, in romeno ce ne sono molte. Forse perché siamo esperti della materia ». E se una parola alternativa in italiano c’è, errore, questa rimanda piuttosto alla dimensione dell’errare, dell’andare di luogo e luogo, esperienza che Costica Bradatan, filosofo romeno, ha detto di aver fatto più volte. L’accademico, docente di Studi umanistici alla Texas Tech University e professore onorario di Filosofia all’Università del Queensland, in Australia, ha presentato ieri a Mantova il suo Elogio del fallimento. Quattro lezioni di umiltà (Il Saggiatore), incentrato su quattro figure: Simone Weil, Gandhi, Emil Cioran e Yukio Mishima. Tutti personaggi che non ci si aspetta di vedere rubricati tra i perdenti, ma che hanno messo il fallimento al centro della loro riflessione e lo hanno testimoniato con le loro vite. Un libro per certi versi simile a Morire per le idee, uscito nel 2017 per Carbonio e dedicato da Bradatan ai “filosofi martiri”. In qualche modo anche loro dei falliti.
Con Bradatan protagonista dell’incontro “Errare è umano”, tenutosi nella cappella palatina di Santa Barbara, è stato il filosofo di Trento Paolo Vanini, esperto della terza figura, Cioran, il grande pessimista romeno esule a Parigi. Il libro è, secondo l’autore una sorta di “cartografia” del fallimento, organizzata per temi e che diventa alla fine un “viaggio spirituale”. Simone Weil, teologa in ricerca, è vista sotto l’aspetto del fallimento fisico. Esperienza di difficoltà a rapportarsi al mondo per la propria goffaggine e per il sentimento di inadeguatezza. «Come con le cose materiali, che sono altro da noi e da noi lontane, ma abbiamo con loro una relazione», ha chiosato l’autore. Man mano che ci si avvicina all’umano e al suo centro (l’esperienza della morte), c’è il fallimento “politico”, incarnato da Gandhi. La dimensione
politica – ha sottolineato Bradatan – è quelle dalla quel, pure se ce ne asteniamo, facciamo comunque parte. Poi trattare Gandhi «era una tentazione grande perché è stato visto come un eroe o un santo». Mishima – visto sotto il segno della finitudine, dell’ineluttabile fallimento biologico e, dunque, della morte (si suicidò) – ebbe «un grande successo letterario e intellettuale, ma non ne fu mai contento, coltivando attività alternative come culturista, attore, regista». Ma quello che incarna il fallimento “sociale” è il personaggio forse più vicino alla sensibilità dei due autori. E al centro tematico dell’incontro, Cioran. Non a caso i due interlocutori hanno evocato il “velo” che ambizioni personali, illusioni, fantasmi di potere frappongono fra noi e il mondo e che, come diceva Schopenauer, è compito del filosofo squarciare. Non a caso il tedesco è uno dei riferimenti del solitario pensatore romeno.
Il fallimento sociale è quello che ci porta a un fenomeno che si osserva nella società competitiva di oggi. Lo ha sottolineato Vanini in esordio: «C’è un obbligo di essere vincenti, migliori degli altri, e leghiamo a ciò il senso della vita. Perciò si fatica ad accettare il proprio». Il fallimento è tabù in tre modi, semplicemente rimuovendolo, attribuendolo agli altri, o dandogli una dimensione agonistica, che si vede in alcuni sportivi: sono diventato quello che sono attraverso i miei errori. Nessuno di questi aspetti definisce, e nemmeno gli autori lo fanno, cosa sia il fallimento. Piuttosto questo diventa una dimensione da scoprire nella sua valenza empatica. A volte noi usciamo dal nostro ombelico (dal crederci il centro del mondo) e siamo davvero in imbarazzo per i fallimenti altrui.
Vanini ha suggerito che a contribuire alla sordina messa oggi al fallimento ci sia una adeguamento al politicamente corretto: «Oggi i falliti sono dei reietti, e ci sentiamo legittimati a trattarli male, perché sono quelli che non ce la fanno. Ma questo non ci viene concesso a livello di linguaggio ». Qui Bradatan ha azzardato un parallelo tra woke e valori cristiani come il peccato e il senso di colpa che hanno improntato l’Occidente, come anche l’essere gentili, generosi e filantropici. « Il woke è come una tarda versione dei valori cristiani. Gli aderenti non sono cristiani o tradizionalisti, ma inconsapevolmente sono post-cristiani, fanno parte della tradizione occidentale cristiana». Alla domanda emersa nel dibattito (molto ricco e che ha preso quasi più tempo della presentazione) sul perché tra i falliti non abbia messo Gesù, Bradatan ha detto di non averlo fatto perché non ha studi teologici alle spalle che lo permettano e per rispetto, visto che la figura di Gesù è talmente grande che non può essere ridotta al fallimento. Ma il tema si arriva al centro di molte religioni, come testimonia la visione buddista della vita come sofferenza.
In conclusione il fallimento, l’errore (dimensione che implica il perdersi o l’arrivare in un luogo sconosciuto e non previsto, e in questo senso può essere anche una arricchimento) può essere un’occasione educativa, un aprire lo sguardo all’autorità del “dettaglio meschino” (Cioran), un modo di uscire dallo stigma sociale, aggravato dalla dimensione on-line che acutizza il problema della nostra proiezione esterna di ciò che vorremmo essere (e spesso non siamo). Lo dimostra la parabola del pigrissimo Cioran, maestro dell’inazione, che si definiva con orgoglio un parassita sociale, e che è passato dallo scrivere un saggio sulla “Trasfigurazione della Romania” a “Sommario della decomposizione”. Due concetti opposti. Alla fine però l’ultima parola ha la terra, l’humus, l’umiltà.