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di Giovanna Iannantuoni
In queste settimane il Parlamento discute la legge di bilancio, che prevede di razionalizzare e ridurre significativamente la spesa dei ministeri. Per parte loro le università iniziano a chiedersi se toccherà di nuovo a loro, per l’ennesima volta, passare sotto il giogo. Una consuetudine del passato che ha contribuito in maniera significativa a portarci esattamente dove siamo. Per risolvere i problemi contabili italiani, infatti, esistono due soli modi: ridurre la spesa o far crescere l’economia. Ma l’economia cresce solo grazie alla formazione continua del capitale umano e all’innovazione tecnologica garantita dalla ricerca. Ovvero la prima e la seconda missione delle università da quando esistono. Di conseguenza, tagliare gli investimenti (chiamiamoli con il termine corretto) in formazione e ricerca significa condannare il Paese a una crescita sempre più bassa che non farà che incrementare la spirale dei tagli. Minando sempre più il benessere dei cittadini. In linea di principio è giusto che tutte le amministrazioni pubbliche contribuiscano allo sforzo per risanare i conti dello Stato, tutto sta però a saper comprendere le implicazioni dei tagli, caso per caso.
La letteratura sulla crescita economica, a cui il premio Nobel Acemoglu ha contribuito in misura determinante, dimostra infatti come gli investimenti in istruzione siano cruciali nel garantire la prosperità delle società democratiche. Eppure, secondo l’ultimo rapporto dell’ANVUR, lo storico divario tra le somme italiane dedicate alla formazione superiore e quelle dei paesi OCSE rimane consistente: 0,90% del PIL da una parte, 1,45% dall’altra. Quandanche il discorso venga ampliato al capitolo ricerca e sviluppo, ci si accorge che la tendenza non cambia: 1,47% contro 2,54% dell’OCSE. In sostanza, da qualunque angolazione la si guardi, l’Italia investe poco.
Per contro, negli ultimi anni le sue Università hanno investito consistentemente sul reclutamento di giovani ricercatori nel tentativo di iniettare nuove energie nel corpo docente. Nel 2012 i ricercatori a tempo determinato di tipo A e B erano 1.140, (2% dell’intero personale docente e ricercatore). Dieci anni dopo, nel 2022, 13.494 (22,1% del totale). Questa straordinaria dinamica di crescita è importante soprattutto perché il 71% dei ricercatori di tipo A e il 46,3% dei ricercatori di tipo B ha meno di 40 anni, percentuale che scende a meno del 5% per le altre figure di docenti e ricercatori. Ebbene, qualora i tagli paventati si trasformassero in norma, sarebbero proprio questi giovani a pagarne maggiormente le conseguenze dirette e il paese tutto quelle indirette e a più lungo periodo. Le politiche di reclutamento delle Università sono state infatti caratterizzate dallo sforzo di attrarre e far tornare i «cervelli» che sempre più spesso formiamo e regaliamo a nazioni più lungimiranti e accoglienti nei confronti di studiosi e scienziati. Giovani grazie ai quali, solo a titolo esemplificativo, siamo riusciti ad aumentare la nostra capacità di attrarre fondi competitivi in ambito europeo (passando dal 4,7% delle risorse stanziate con il VII programma quadro all’8,7% nell’ambito di Horizon 2020).
Il differenziale
L’Italia dedica alla formazione superiore lo 0,9 % del Pil contro l’1,45% dell’Ocse. Ricerca,
il rapporto è 1,47% contro 2,54%
L’Italia ha un numero di laureati nella fascia tra i 25 e i 34 anni fra i più bassi dell’OCSE, dove si attesta al 47%. Risultato in questo caso dovuto al sommarsi di variabili culturali e pratiche di orientamento al disinvestimento cronico caratteristico degli ultimi decenni. Eppure, anche su questo fronte, l’impegno degli atenei è riuscito a far passare il 21% registrato nel 2011 al 28,3% del 2021.
In altri termini, il sistema universitario ha dimostrato ampiamente di saper gestire le risorse che lo Stato gli assegna o che è in grado di reperire presso gli organismi europei. E lo ha dimostrato in tempi non sospetti che hanno spesso messo a rischio la sua stessa sopravvivenza. Tempi che rischiano di ripetersi con un impatto senza precedenti se, nella consapevolezza delle responsabilità reciproche, l’università, la politica e gli organi dello Stato non decidono di impegnarsi senza più indugi per la salvaguardia del potenziale di crescita della nostra economia e per il futuro dei giovani.
Aumentare le cifre del bilancio dello Stato dedicate a università e ricerca sarebbe il passo doveroso di ogni democrazia avanzata che aspiri a rimanere competitiva nello scenario internazionale. Un passo sempre auspicabile, che gli atenei accoglierebbero come il segnale di un cambiamento storico. Tuttavia, anche in tempi che impongono scelte oculate, ci sono passi che si possono fare nella direzione di consolidare un quadro di finanziamento a medio periodo certo e sostenibile. E sono almeno tre: incrementare in maniera adeguata gli investimenti per il diritto allo studio, garantire che gli adeguamenti stipendiali del personale universitario dovuti all’aumento del costo della vita non gravino sui bilanci universitari, intervenire sui meccanismi di calcolo degli indicatori che oggi monitorano la sostenibilità finanziaria degli atenei.