Un viatico certo non entusiasmante per il manager che si è destreggiato in Parlamento giocando, perlopiù, in difesa: “Sento da parte vostra rabbia e un certo livore. Lo stesso atteggiamento che hanno i lavoratori. Ma i regolamenti Ue, che sono alla base di questa situazione attuale, ci sono stati imposti: sarebbe sbagliato fare una grande insalata”.
Un intervento, comprese le repliche alle critiche dei parlamentari, che non ha convinto: contestato dai partiti d’opposizione e accolto da un diffuso silenzio di governo e maggioranza. La parola più citata nei giudizi, non a caso, è stata “delusione”. Il più duro, come accade ormai da tempo, è stato Carlo Calenda, protagonista anche di un battibecco col manager: “Le cose che avete detto lei ed Elkann sono tutte false: non è più accettabile, è una presa in giro. Siamo contrari a dare un singolo euro finché non c’è un piano industriale scritto”. Elly Schlein, invece, invoca “chiarezza, perché abbiamo visto piuttosto segnali di disimpegno e disinvestimento”. Giuseppe Conte parla di “intervento insoddisfacente” e ricorda quando, da presidente del Consiglio, ascoltò le promesse di John Elkann: “Quando siete venuti in Italia avete goduto di una garanzia del 90% per un prestito di 6,3 miliardi di euro, ma non avete mantenuto nulla. Se continuate a investire in Polonia e Marocco, per l’Italia non c’è futuro”.
Ma che cosa aveva detto, o non detto, Tavares? Il suo intervento ha puntato tutto sulle emergenze del settore auto nel mondo. Con una citazione iniziale, a lui cara da tempo: “Viviamo in una situazione darwiniana per regole che non abbiamo deciso noi”. Parole che paiono preannunciare sconvolgimenti, con la scomparsa di molti produttori storici e nuove concentrazioni. Nessun annuncio di nuovi modelli per l’Italia, invece, e nessuna modifica al piano strategico di Stellantis, anzi rivendicato e difeso (“è falso dire che non lo abbiamo”): perché il ceo in uscita nel 2026 non ha avuto nessun mandato per cambiarlo. Con due sole eccezioni: l’anticipo di sei mesi della 500 ibrida a Mirafiori, nel tentativo disperato di tamponare la crisi dello storico stabilimento torinese, e la piattaforma dei motori ibridi a Melfi.
Segue il solito elenco di doglianze sui problemi del settore: “Molti concorrenti scelgono il ribasso, specialmente per i veicoli a motore termico. E io devo poter vendere i veicoli elettrici allo stesso prezzo, con un 40% di aumento dei costi per la tecnologia elettrica: una tensione insopportabile. Voi politici dovete spiegarmi come faccio”. In realtà come farebbe è stato chiaro quando è arrivata, subito dopo, l’immancabile appello per nuovi incentivi: “Abbiamo fatto bene i compiti, anche di fronte alla strategia scelta dall’Ue che, per noi, non è necessariamente la migliore. Come mai non vendiamo auto elettriche in Italia? Perché costano troppo. Dobbiamo renderle accessibili con incentivi e sussidi, sennò non ce la facciamo. Sono soldi che vi chiediamo non per noi, ma per i vostri cittadini: perché possano acquistarle. Io non parlo di un milione di vetture prodotte in Italia in un anno, ma di un milione di clienti”. Un aggravio di costi che Tavares ribalta ancora una volta sulla politica che non interviene: “In Italia il costo dell’energia è molto elevato e questo è uno svantaggio notevole. Qui è il doppio rispetto alla Spagna. Perché non lo so, ma è così”.
L’ultimo argomento è dedicato al “pericolo Pechino”: “C’è in Cina un’eccedenza di capacità dei loro stabilimenti e allora esportano e arrivano nuovi concorrenti. E l’Europa cerca di fare la stessa cosa. I cinesi hanno un 30% di vantaggio competitivo rispetto a noi, perché i loro veicoli costano il 30% in meno, e questo significa un ulteriore choc. Dobbiamo per forza affrontare la concorrenza cinese, anche con tutele, anche in un’Europa protetta”.
Perorazioni che, se non hanno convinto la politica (a lungo silenziosa però: sia destra che sinistra sul “caso Stellantis”), hanno compattato ancora di più Cgil, Cisl e Uil nella bocciatura di Tavares. Confermato, ovviamente, lo sciopero unitario dell’intero settore automotive di venerdì 18 ottobre: una cosa che nel nostro Paese non accadeva da più di 20 anni. Con i mezzo la stagione della rottura tra i confederali avvenuta ai tempi di Sergio Marchionne, col referendum alla Fiat perso dalla Fiom-Cgil.