Lo scrittore irlandese di “The Master” si sofferma sull’autoritratto del grande artista britannico, ora protagonista di una mostra a Londra restituendone una descrizione unica
di
Colm Tóibín
La prima cosa che colpisce è lo sguardo: diretto, ma non inquisitivo e nemmeno seduttivo. Lascia trapelare un’interiorità intellettuale, ma anche una grande emozione, trattenuta dentro pure quella. E nell’espressione non ci sono sdegno o altezzosità, e nemmeno una facile espansività: distanza, semmai. È una presenza curiosamente assertiva, ma anche singolarmente repressa. C’è una sorta di tormento, di distacco, ma è qualcosa che viene soltanto accennato, non dichiarato apertamente o eccessivamente enfatizzato.
Gli occhi sono aperti, le pupille sono pienamente evidenti, la palpebra sul lato sinistro è più chiara di quella a destra. Se si guardano da vicino gli occhi, sembrano dare contemporaneamente di più e di meno. Quello sul lato sinistro è sfumato e annebbiato, ma al tempo stesso vivo, presente. Lo sguardo è attento, indagatore, vagamente interrogativo, senza rivelare granché.
Sul lato destro dell’occhio a sinistra si nota un segno sottile che scende verso il basso e sembra appena fatto, non dà l’idea di essere stato cancellato e ridisegnato, anche se potrebbe essere un’illusione. Ha l’aria di una decisione tardiva. Attira lo spettatore – l’occhio dello spettatore – dentro, verso quell’occhio: se si guarda con attenzione, la palpebra, in una fase iniziale del processo, è stata disegnata con una cura straordinaria.
Sotto l’altro occhio, a destra, ci sono due segnetti che a volerli interpretare alla lettera potrebbero essere delle rughe, ma più probabilmente sono tratti che rispondono a un’esigenza meno figurativa.
La carta è strappata, ricucita, rattoppata; con tutte quelle abrasioni trasmette una sensazione di casualità, contingenza, perfino rapidità, e può essere facile non accorgersi dell’accuratezza con cui sono state immaginate e realizzate la faccia e la testa, o non notare le labbra, il labbro inferiore voluttuoso, sanguigno ed eseguito alla perfezione, così come il naso.
Non è l’introspezione psicologica che fa la forza di questo disegno. Non si sforza di dirci che tipo di persona è realmente, o potrebbe essere, l’uomo ritratto, tanto che non sentiamo di poter dire, dopo aver studiato il disegno, che ormai lo conosciamo, non riusciamo a farci un’idea di come sia effettivamente la sua vita interiore. Ma ci lascia intendere che è spettrale, complessa e nebulosa, troppo per poter essere focalizzata o raffigurata con facilità.
Il disegno stesso è spettrale, complesso e nebuloso. L’immagine non è stabile, non è nemmeno unica, non descrive le cose per quello che sono: l’artista non fa quello che farebbe una lampada, mettendo in evidenza una serie di tratti, gettando luce su qualcosa che è già lì e viene strappato all’ombra o all’oscurità.
Il disegno è un’esplorazione della luce, un’escavazione della luce. Curiosamente, il grigio e il nero del carboncino aprono uno spazio alla luce: le parti del disegno in cui il carboncino è stato impiastrato, cancellato o non utilizzato affatto sono quelle che risaltano maggiormente; è l’assenza che conta.
Lo spettatore fa fatica a inquadrare con precisione il volto, a capire cosa stia facendo. Emerge dalle trame impenetrabili che riesce a produrre il carboncino, tramutandosi da una sorta di ponderatezza e interiorità in una figura che vede il mondo, che guarda verso l’esterno.
L’area che circonda la testa e il corpo è piena di aggiunte e cancellature. Alcuni segni, invece, hanno l’aria di gesti unici, coraggiosi: dal basso, più o meno a metà, la matita a carboncino traccia un segno ampio, più scuro e vistoso degli altri intorno.
Salendo verso destra, questo tratto sembra dilatarsi in tante direzioni diverse: sul lato a destra della faccia, per esempio, e verso l’orecchio. E ci sono due o tre linee nere sottili che si dipartono da lì verso il lato destro del disegno.
Sul lato sinistro non c’è niente di altrettanto denso: lì il carboncino è stato spalmato sottilmente con un panno, o magari con il lato della mano. È grigio come il fumo, poi meno grigio e poi qualche sfumatura più scura. L’impressione che dà è quella di una luce che combatte e si fa largo a fatica, un bagliore tenue, lo strato di carboncino come un velo o una foschia in cui a tratti si intravede qualche immagine incostante di quello che c’è dietro, che era lì un tempo e potrebbe facilmente emergere.
Sempre a sinistra, ma verso la metà del disegno, corre una striscia luminosa che sale dal basso, fatta in parte col gesso, che a tratti risalta maggiormente perché è meno ombreggiata e indistinta della superficie intorno. In compenso, è quasi in conflitto con il tratto scuro che sale sull’altro lato.
Più luminosa, più chiara, questa pennellata bianca supera la bocca del modello ma non si spinge fino all’occhio, e trova riscontro in due linee bianche sulla faccia, due tratti più ampi e marcati, uno che attraversa la fronte e uno sotto l’occhio destro.
La superficie del foglio a sinistra del viso è dinamica,l’autore l’ha ricoperta rapidamente ( o così sembra) e poi l’ha rifatta, ci ha aggiunto altre cose, l’ha sfocata, l’ha stemperata. È una parte del disegno dove l’autore si è preso dei rischi, dove il progetto deliberato ha lottato corpo a corpo con tutto quello che non può essere programmato o eseguito con facilità.
Il rischio è che la casualità possa sembrare in realtà pianificata o al contrario troppo casuale. Quello che succede deriva in parte dal puro istinto, ma anche dal capire, lucidamente, se guardando il disegno ci sono troppe decisioni evidenti, se c’è stato un ragionamento eccessivo, un’eccessiva ricerca dell’effetto.
Quello che succede, insomma, dipende tanto dall’occhio dell’artista quanto dalla mano, perché è l’occhio che giudica e sospinge il materiale. Alcune delle linee, dei graffi, che fanno pensare al negativo di una fotografia o a un’incisione, hanno elementi di pura energia e creano un’illusione di movimento, spostando la luce.
La superficie è fragile: è carta, d’altronde, può esserestrappata o tagliata facilmente. Avrebbe potuto non reggere allo sforzo intenso che è stato necessario per realizzare l’immagine, e l’immagine stessa mette in scena il dramma e la tensione tra l’opera e il materiale su cui è stata eseguita.
Quest’aura di vulnerabilità, di fragilità, questa superficie consumata e riparata, ha un potere evocativo, ma non è metafora di nulla. Succede è qualcosa di più semplice e potente.
L’artista non cerca di occultare le prove degli strappi, dei buchi. Quello che è successo al foglio intorno alla testa diventa qualcosa che coinvolge e attira lo sguardo, perché l’immagine centrale – il viso – è focalizzata, disegnata con precisione. È separata da quanto gli sta intorno.
Il disegno è a metà strada fra il volto e lo sguardo, finemente cesellati, e il concetto del collage, con trame disparate cucite insieme. In altre parole, la scelta deliberata e l’accuratezza lottano con la provvisorietà, con cosemesse insieme dalla casualità e poi dall’intenzione, o strappate e danneggiate un po’ per casualità e un po’ per intenzione, fino ad arrivare al punto in cui la distanza tra casualità e intenzione non solo appare lieve, ma le due parole stesse – casualità e intenzione – possono essere impiastrate e cancellate e distinzioni del genere finiscono per essere accantonate e perdere di senso.
Quando vengono meno queste facili distinzioni rischia di andarci di mezzo l’integrità dell’immagine, ma più guardiamo il disegno più diventa necessario accantonare anche questo concetto, o almeno metterlo in dubbio.
Le parti strappate e le cuciture non sono segno di una personalità strappata, ferita o rattoppata, ma offrono una sorta di dramma visivo che cozza con il grigiore del mezzo espressivo stesso, il carboncino. La pura e semplice quantità di lavoro che si evince chiaramente dal disegno fa pensare che molte cose siano frutto di una decisione deliberata e non estemporanea, per esempio il minuscolo segno a forma di M sopra il labbro superiore destro, o le lineette sul lato destro del mento, o i segni più intensi sulla guancia sopra; e sono tutte cose che appaiono corrette, non cose da cancellare, ritoccare o impiastrare. Aspetti di uno schema misterioso, uno schema emerso con grande sforzo e asprezza, uno schema che mette alla prova, senza facili connessioni o compromessi.
Guardando da lontano, le trame del lato più a sinistra del disegno non sono facilmente decifrabili. Ma quando ci si avvicina, l’occhio viene attratto. Su questo lato del foglio c’è una striscia che corre in verticale ed è prodotta sicuramente da quello che c’è sotto la carta, forse la lamina sottostante che preme la sua superficie in rilievo sul foglio del disegno. Attaccate a questa linea, a intervalli, ci sono forme che ricordano un pesce, ma non sono figurative e probabilmente sono state create da un adesivo o qualche espediente per rendere più resistente il foglio di carta. Difficilmente una cosa del genere avrebbe potuto essere programmata: quelle forme penetrano in profondità nell’immagine.
Poiché lo spazio tra la figura e il margine del foglio sul lato sinistro è maggiore, questa parte del disegno avrebbe potuto facilmente essere tagliata, rimossa interamente. Ma è stato deciso di non farlo ed è una decisione che cambia tutto, perché evita una facile simmetria tra il lato sinistro e quello destro. Rifugge la formalità della posa. Rende la presenza della figura più titubante, meno ufficiale. Significa anche, e forse è la cosa più importante, che l’occhio ha altri posti in cui andare, in questo disegno cupo: può essere attirato a sinistra, verso la linea che corre in verticale e le forme che compaiono perpendicolari a essa; e poi questi altri posti possono apparire fiochi rispetto alla faccia stessa.
Quando l’occhio ha studiato attentamente le tonalità sulla sinistra e torna sulla faccia, vede che la faccia è viva, ricca di sfumature, sottigliezze e ambiguità.
L’ambiguità deriva da un lato da una sorta di controllo, di autocontrollo, di mancanza di un’emozione facilmente distinguibile nell’espressione del volto, e dall’altro lato dalla battaglia che è stata necessaria per realizzare l’immagine, la quantità di strappi, buchi, cancellature, rattoppi. L’io, quando sottoposto alla pressione dell’autoesame, contiene frattura, disagio, incertezza, lotta interiore. Se di qualcosa è metafora questo disegno ( e probabilmente non è metafora di nulla), sono le difficoltà nella costruzione dell’immagine, la possibilità di mantenere chiarezza e unicità di visione contro la forza, l’eccitazione e il disordine del processo.
In definitiva, lo scopo non è sperimentare il processo, ma vedere l’immagine, offrire quel singolo istante di sbigottimento, forse perfino di riconoscimento, la sua autonomia. La figura solitaria, maschile, sobria, vestita in modo da non attirare l’attenzione, l’immobilità, il silenzio che immagiamo, aggiungono una sorta di accigliata gravità al viso composto. Ma l’opera, in tutta la sua energia, conferisce agli occhi, allo sguardo, alla testa stessa, anche una presenza fiera, una spavalderia, una saldezza di intenti.