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25 Aprile 2023Tra l’Abate di San Miniato a Monte e Fabio Pacciani una visione comune di come costruire una città giusta
Alti orizzonti A San Miniato al Monte due giorni di studio per riflettere e ripensare lo spazio urbano di Firenze. Padre Bernardo: la sfida più grande oggi è una comunità attiva, partecipe e solidale
Costruiamo una città giusta
Il 4 e l’11 maggio la Basilica di San Miniato al Monte ospita le giornate di studio «La città giusta. Nello spazio e nel tempo» per ripensare la città del futuro, sostenibile e solidale. Saranno inaugurate dall’intervento di Padre Bernardo di cui pubblichiamo una sintesi.
di Padre Bernardo Gianni*
«L’idea e l’immagine della città per me non è mai stata tanto quella puramente paesistica, quanto il suo insieme e la sua comunità. È stata sempre civitas più che urbs . E può benissimo dirsi immagine agostiniana. La città è un corpo, percorso da diverse pulsioni dell’agire umano e storico, ma è anche realtà illuminata dalla natura. È vero che il mio destino è stato più quello di segnare come auspicio i termini vitali della città, mentre dati storici o di cronaca osservati mi hanno più spesso significato l’offensiva del male, nelle sue diverse forme. La città sotto l’azione della violenza e della corruzione si disgrega, come Alessandria in Ipazia , come la città moderna, Firenze, sotto l’alluvione. La raffigurazione, naturalmente, è reale e simbolica nello stesso tempo e vuole denunciare che la città umana senza idea vitale si sfascia».
Questa coscienza di cittadinanza organica, sofferta e dunque vigile e profetica al contempo anima una due giorni di riflessione organizzata da diversi laboratori di pensiero e di custodia della memoria cittadina, invitati a San Miniato al Monte dalla comunità monastica per restituire a quello sguardo su Firenze tutta una sua peculiare indole di speranza generata dalla lucidità dell’analisi oggettiva della realtà presente e da una ragionata elaborazione e condivisione di quello che il pensiero di Mario Luzi ci ha appena indicato come idea vitale.
C’è stato infatti un tempo in cui gli urbanisti si sono illusi di poter costruire e governare la città attraverso il disegno, l’ordine, la gerarchia, la funzionalità. Sono gli anni Trenta, quando in Europa le risposte alle ferite lasciate dalla Grande Guerra sembrano risiedere in un modello ideale di insediamento umano applicabile ovunque, in un piano disegnato a tavolino, indipendente dal luogo e indifferente all’ambiente, in una visione meccanicistica in cui ogni elemento (edifici, strade, piazze, alberi, persone) diventa materiale da costruzione per l’espansione illimitata del meccanismo urbano.
Ma già in questo clima, improntato ad una fede cieca nell’approccio meccanicistico alla pianificazione, si comincia ad intravedere lo scollamento tra il modello teorico e lo spazio abitato, la città vissuta. Divario che si inasprisce nel secondo dopoguerra, quando all’astratto funzionalismo e alla ottimistica utopia razionalista, si affiancano la banalizzazione dei principi del modernismo, la speculazione, l’ascesa della rendita e del profitto. La città che ne scaturisce è quella descritta da Pasolini, fatta di «luoghi sconfinati dove credi che la città finisca, e dove invece ricomincia, nemica, ricomincia per migliaia di volte, con ponti e labirinti, cantieri e sterri, dietro mareggiate di grattacieli, che coprono interi orizzonti» .
Di questa città insostenibile discutono, tra gli anni Cinquanta e Sessanta a Firenze tre personalità illustri, in un clima di grande fermento politico e di tensione ideale. Il capoluogo toscano diviene un importante laboratorio di elaborazione teorica e di sperimentazione, anche attraverso un fitto dialogo tra i protagonisti del mondo dell’urbanistica, della fede e della politica, che si intreccia sulle riviste e sul campo, e che, pur partendo da presupposti diversi sembra confluire in una aspirazione comune per la città futura .
Secondo la visione di Giovanni Michelucci, la città dovrebbe essere dei cittadini, in contrasto con la visione della città modernista , indifferente alla storia, dove protagonista è la forma urbana, mentre i cittadini sono spesso semplice comparsa. «Vorremmo che case, quartieri, zone, città, fossero non per degli “abitanti” ma per degli uomini», scrive Michelucci, e che la città fosse un luogo «in grado di rompere l’isolamento cercando di creare rapporti tra personaggi dove prima c’era la solitudine degli individui» .
Ernesto Balducci, personaggio di spicco del mondo cattolico di quegli anni, è ancora più radicale e individua nella disintegrazione umana, tipica dell’era capitalistica, la causa della degenerazione urbana, sottolineando l’impossibilità di risolvere i problemi della città se non in maniera globale : secondo la sua interpretazione, infatti, politica ed economia determinano la forma della città non meno della pratica urbanistica. Ipotizza dunque una città plurale, la città mondo, un luogo del dialogo con al centro l’uomo, la comunità.
A mettere insieme le due visioni è forse il terzo protagonista, Giorgio La Pira, politico e amministratore, sindaco di Firenze tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Per lui le città «non sono cumuli occasionali di pietra: sono misteriose abitazioni di uomini e più ancora, in certo modo, misteriose abitazioni di Dio» , sono «fari creatori di luce e di civiltà» e per questo devono rispondere alle necessità delle persone, in primo luogo dei più deboli.
Partendo da questo momento di fermento e di tensione etica, che illuminarono quegli anni, portando alla realizzazione di importanti parti della nuova Firenze, vorremmo tornare a proporre l’eterna domanda se sia possibile costruire una città giusta , spazialmente democratica, socialmente equa, ecologicamente equilibrata : una città accogliente , che sia casa comune .
«Come sono belle — scrive papa Francesco — le città che superano la sfiducia malsana e integrano i differenti e che fanno di tale integrazione un nuovo fattore di sviluppo! Come sono belle le città che, anche nel loro disegno architettonico, sono piene di spazi che collegano, mettono in relazione, favoriscono il riconoscimento dell’altro!».
È forse questa oggi la sfida più grande che siamo tutti chiamati ad affrontare, per realizzare una esperienza autentica e rinnovante di cittadinanza attiva, partecipe, solidale, capace di rendere Firenze e le altre città del mondo spazialità «porose» come le desiderava Walter Benjamin. I nostri giorni a San Miniato vorrebbero con umile determinazione coinvolgere chiunque: tecnici, politici, amministratori, artisti, poeti, studenti, lavoratori, disoccupati, cittadini in quanto tali, perché, come sosteneva Michelucci, «se non si è, tutti, cittadini coscienti, intenti al fine di erigere la città, la città non si salva». Ci è di grande sprone e conforto la lungimirante diagnosi e l’avvincente pronostico dello stesso La Pira rivolti ancora una volta ai Sindaci di tutto il mondo nel 1955: «La crisi del nostro tempo — che è una crisi di sproporzione e di dismisura rispetto a ciò che è veramente umano — ci fornisce la prova del valore, diciamo così, terapeutico e risolutivo che in ordine ad essa la città possiede. Come è stato felicemente detto, infatti, la crisi del tempo nostro può essere definita come sradicamento della persona dal contesto organico della città. Ebbene: questa crisi non potrà essere risolta che mediante un radicamento nuovo, più profondo, più organico, della persona nella città in cui essa è nata e nella cui storia e nella cui tradizione essa è organicamente inserita».
*Abate di San Miniato al Monte