The Year in Classics
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30 Dicembre 2024TRA LE OSSA DELLA SIRIA
La mamma di Saleh rovista tra le pietre, prende un cranio, lo rigira tra le mani: “Non è di un bambino, non è di mio figlio”. I siriani ricostruiscono memoria e futuro tra le fosse comuni di Tadamon e le gabbie di Sednaya, aspettando un’inchiesta internazionale sull’orrore di Assad
Aspettami qui!”, dice un bambino che all’improvviso corre all’interno dello scheletro di un palazzo distrutto dalle bombe del regime di Bashar el Assad. Avrà una decina di anni e gioca in ciabatte con altri suoi coetanei in questo teatro degli orrori chiamato Tadamon, periferia sud di Damasco. Torna con un sorriso, stringe tra le sue piccole dita le ossa di un cranio raccolte poco più in là. Poco dopo lo raggiunge un suo amico, avrà la stessa età, fa vedere quello che era il femore di una delle centinaia (o migliaia?) di persone uccise in questo mattatoio a cielo aperto. La chiamano “red zone” ed è solo una parte del quartiere che fino a meno di un mese fa era controldal lata dal regime che impediva a chiunque di entrare e di uscire. Ora che Assad è fuggito, decine di disperati sono tornati. Molti di loro chiedono solamente una cosa: “Scavate e diteci la verità sui nostri cari”.
Nel 2022 due ricercatori di Amsterdam si ritrovarono per le mani un video datato 16 aprile 2013 e recuperato da un militare del regime. Era rimasto talmente sconvolto dal filmato che decise di sottoporlo a un’indagine all’estero. Il video mostrava il massacro di decine di persone che, legate e bendate, venivano condotte sull’orlo di un fossato. “Che devo fare?”, chiedevano terrorizzate le vittime. “Corri. Devi solo correre”, gli rispondeva il carnefice, il maggiore Amjad Yousef dell’unità 227, quella dell’intelligence militare del regime. Dopo due passi, una raffica di colpi e il corpo che cade nell’enorme fossa comune. Il video mostra almeno 41 esecuzioni. Ma i residenti dicono che Tadamon non è stato un episodio isolato: era un metodo. “Qui è pieno di fosse come questa”, racconta uno dei vecchi abitanti che gestiva un bar. “Una volta stavo servendo il tè a due militari. Gli chiesi come fosse andata la giornata e loro mi risposero che avevano appena finito di scavare un grosso buco per terra. Gli chiesi il motivo e loro mi risposero: ‘Per riempirlo’, e scoppiarono a ridere”.
Saleh fuma nervoso una sigaretta mentre indica il terzo o quarto piano di uno dei palazzi che
si affacciano sulla fossa comune. “Lo sto rimettendo a posto. Non ho più soldi per pagarmi l’affitto e con lo stipendio da pittore al massimo riesco a procurare l’indi-spensabile per me e la mia famiglia”. La disperazione e la povertà a cui Saleh è stato ridotto dopo 13 anni di guerra non gli danno scelta: “Ho due figli. Lo so che quando tornerò a vivere qui loro finiranno per giocare come gli altri bambini in questo posto d’inferno. Ma cos’altro posso fare? Non ho dove andare”.
Prima ancora che il regime di Assad salisse al potere, questo quartiere era aperta campagna. Cominciò a popolarsi dopo la Guerra dei Sei giorni, verso la fine degli anni Sessanta, con l’edificazione di case in modo disordinato da parte dei siriani fuggiti dal Golan occupato dagli israeliani. All’inizio della guerra civile, qui si concentrarono molti gruppi di opposizione al regime, che intervenne con una brutalità tanto inaudita quanto sconosciuta al resto del mondo. Le case furono distrutte perché l’esercito non voleva che i ribelli tornassero nelle proprie case. Ma la rappresaglia nei confronti degli abitanti di Tadamon fu più spietata che altrove. Come una pentola dalla quale solo ora si alza il coperchio, gli orrori commessi dal regime di Assad stanno venendo alla luce anche per gli stessi siriani.
Luca Gambardella lavora al Foglio dal 2014 e scrive soprattutto di medio oriente e Mediterraneo.
I BAMBINI DI TADAMON
Raccolgono in ciabatte le ossa negli scheletri dei palazzi e nelle fosse. Ridono, ma sono terrorizzati dalla morte. Il video delle donne massacrate che nessuno ha voluto mostrare
Per anni, centinaia di famiglie hanno considerato le fosse comuni come degli incubi, delle ombre nelle proprie menti su cui era impossibile trovare conferme. Ora hanno scoperto che queste ombre sono la verità, ma la portata di questi massacri è ancora adesso incalcolabile e solo adeguate indagini forensi potranno accertarne le dimensioni reali. “Qui però non c’è nessuno”, dice il papà di Hashim Massawi: “Dove sono le organizzazioni internazionali? Dov’è il resto del mondo? Ci hanno lasciati soli prima del massacro e anche ora che tutto è finito”. Dall’8 dicembre, il giorno della caduta del regime, fino a oggi nessuno è venuto qui a sollevare la terra con cui sono stati ricoperti i corpi della fossa comune o a ispezionare le altre aree che, secondo gli abitanti, nascondono altre centinaia di corpi. I White Helmets, il corpo del pronto intervento che si sta occupando delle indagini dei massacri del regime, dice di non avere abbastanza uomini da dislocare in ognuno dei luoghi delle stragi. A essere impegnati in quello che somiglia a un gioco tragico sono i bambini che passano le loro giornate correndo tra i calcinacci a raccogliere le ossa che emergono qua e là. Ridono, ma sono terrorizzati dalla morte, che emerge dalle macerie di Tadamon. “Abbiamo paura”, dice uno di loroi.
Hashim mostra la foto del piccolo Saleh, che aveva 14 anni il giorno in cui è sparito dietro al vicolo in cui oggi si trova la fossa. Gli occhi scuri e i capelli neri scendono sui lati della fronte. Aveva detto a sua madre che sarebbe uscito in strada a giocare con i suoi amici. L’ultima volta che l’hanno visto è stato proprio il giorno del massacro, nello stesso vicolo. Il padre Hashim era un poliziotto e la sera, tornato a casa, cominciò a preoccuparsi non vedendo tornare suo figlio. “Andai a cercarlo lì dove ora c’è la fossa, ma i militari mi fermarono: ‘Che lo cerchi a fare?’, mi dissero. Risposi che ero un poliziotto, ma mi dissero che a loro non interessava”.
La madre di Saleh scende dal taxi e cammina a fatica fino al punto in cui avvenne il massacro. Si piega e si mette a spostare le pietre. Raccoglie da terra il pezzo di un cranio e se lo rigira tra le mani: “Questo non è di un bambino”, dice a sé stessa quasi sollevata, perché una madre non dovrebbe mai ritrovarsi a rovistare in cerca delle ossa dei propri figli. In questi anni è stata arrestata due volte, solamente perché andava in giro per il quartiere a chiedere notizie. Per lei la speranza che il piccolo Saleh sia ancora vivo non è spenta. Appena suo marito mostra la foto del piccolo Saleh, la donna vuole fermarlo: “Se la fai vedere a tutti e lui è ancora vivo potrebbero fargli del male”, gli dice cercando di non piangere. Il dolore della perdita di suo figlio sembra avere cancellato ogni cosa, persino gli eventi storici che da meno di un mese hanno cambiato il volto della Siria, portando alla caduta della dittatura di Bashar. Per la madre di Saleh è come se il regime fosse ancora al suo posto, come se suo figlio potesse ancora essere tra le mani dei servizi segreti di Assad.
Le foto degli scomparsi durante il regime appese in piazza Marjeh, a Damasco. In prima pagina, con in mano delle ossa, il padre del piccolo Saleh mostra una foto del figlio scomparso
L’ingresso del campo di Yarmouk, a Damasco (in questa pagina e in prima, foto di Luca Gambardella)
Come molti altri in questo popolo a cui la giustizia è stata negata, anche i genitori di Saleh sono andati fino al carcere di Sednayah per cercare informazioni che dimostrassero che loro figlio fosse detenuto lì e non fosse stato ucciso. Non hanno trovato nulla e ora cercano risposte qui, a Tadamon. “Fatela vedere questa foto! – urla il padre in lacrime – dobbiamo avere giustizia!”.
Il regime accecato dalla volontà di umiliare, di torturare e di uccidere chiunque non ha avuto riguardi nemmeno per bambini come Saleh e si sospetta che assieme a lui, nella fossa comune, siano finiti altri della stessa età. Non ha avuto riguardi nemmeno per le donne: esiste un secondo video considerato dai ricercatori di Amsterdam talmente rivoltante da avere preferito evitarne la circolazione. Sulle motivazioni dei massacri, tutti parlano di un odio viscerale del regime alawuita nei confronti dei sunniti. “E’ il loro modo di agire, è uguale a quello dell’Iran”, dice Mustafa, un muratore che abita nel quartiere. Quello dell’odio settario resta ancora oggi il lato oscuro di questa nuova Siria. A Tartous, Latakia, Hama, Homs e Damasco si registrano casi isolati di violenze dei militari di Hayat Tahrir al Sham (Hts), ora al potere, ai danni di alawuiti e cristiani. Una violenza a ruoli invertiti, perpetrata stavolta dalla maggioranza sunnita: spetterà al nuovo leader del governo di transizione, Ahmed al Sharaa, tenerla a bada.