Antonio Damasio, Sentire e conoscere
25 Settembre 2022I Will Survive
25 Settembre 2022Per un libro uscito in Italia nel corso di questa estate, tra le più calde degli ultimi duecento anni, un titolo come Quel che resta del fiume (Vallecchi, 2022) potrebbe far pensare che si tratti di un testo sulla crisi idrica, di cui anche i più distratti si sono accorti nei mesi torridi appena trascorsi. Cosa restasse di molti fiumi italiani se lo sono chiesti all’improvviso giornali e televisioni, preconizzando siccità, incendi, alluvioni e blackout. Scenari che climatologi, attivisti e artisti vedono da tempo e in modo ben più articolato, senza aver ancora ricevuto l’attenzione che meriterebbero. Invece no, non che la crisi climatica e le sue cause siano assenti dal libro, anzi, ma non è l’attualità il cuore del primo romanzo di Mario Maffi, anglo-americanista, traduttore e saggista prolifico. Il tempo di Quel che resta del fiume è lungo, è un intreccio di memorie (il titolo richiama forse Quel che resta del giorno?) che si dipanano attraverso città e corsi d’acqua già noti ai lettori dei suoi saggi, da New York. L’isola delle colline (1995) a Mississippi. Il Grande Fiume: un viaggio alle radici dell’America (2004, 2009), fino a Tamigi. Storie di fiume (2008) e Città di Memoria. Viaggi nel passato e nel presente di sei metropoli (2014).
Cosa sia Quel che resta del fiume lo svela Sal, artista del realismo sarcastico, cresciuto negli anni Sessanta in un “casermone popolare del Lower East Side, a due passi dall’East River” (New York) e poi in movimento – più o meno caotico, per sé e per chi lo circonda – tra gli Stati Uniti (Chicago, Kansas City, Los Angeles) e l’Inghilterra (Londra, Gravesend). “Lo amo, questo tratto del fiume. Sta per buttarsi nel mare ed è come se sentisse il bisogno di raccontare le ultime storie prima di perdersi in altre acque”, confida all’amico fraterno, Rhys, mentre scrutano la foce dell’East River bevendo birra su un pontile. Sarà proprio Rhys, scrittore a tratti incerto e spesso trasportato dal corso degli eventi, a narrare le tante storie contenute in questo libro: non solo l’amicizia profonda e travagliata con Sal, ma anche quelle dei tanti personaggi e luoghi incontrati bordeggiando – così definisce il proprio movimento – tra città medie, metropoli, centri piccolissimi e luoghi remoti d’America e Inghilterra.
Tra i tanti luoghi, uno in particolare cattura l’attenzione di chi legge, forse perché è più inusuale che venga narrato, e con tale cura. È la distesa di acque e terre piatte compresa tra New Orleans e il Golfo del Messico, nel delta del Mississippi. Rhys la racconta a partire da “una vecchia casa in legno, scrostata e sbilenca” a qualche chilometro da Des Allemands, “una cittadina di appena duemila abitanti sul bayou omonimo, uno dei numerosi corsi d’acqua, piccoli o grandi, che accompagnano il Mississippi al Golfo”. È approdato lì dopo vari lavori, trasferimenti e separazioni, mentre Sal è sempre più lontano, proiettato verso l’orizzonte scintillante delle gallerie d’arte di Los Angeles, assuefatto dalle priorità e dal quartiere in cui vive, Venice.
Rhys invece, con il tempo, riesce a crearsi una routine rassicurante a Des Allemands, fatta di scrittura, piccoli lavori editoriali e relazioni intrecciate nei bar, nei locali e in altri luoghi intimi e familiari: “Ci si vedeva spesso, da me, da Jaime, sulla tolda dell’Evangeline, alla Napoleon House, da Louie’s, nell’appartamento pieno di luce di Marc o stretti nei pochi metri quadri di quello di Annette, una specie di grossa famiglia allargata, senza figli (almeno nelle immediate vicinanze), o forse ciascuno figlio di se stesso”. Potrebbe essere la descrizione della vita quotidiana in un luogo come un altro. Invece, è quel margine degli Stati Uniti già colpito dall’uragano Katrina ed esposto a fenomeni climatici sempre più estremi, una terracqua segnata dalla schiavitù nelle piantagioni, dagli argini artificiali e dall’uso di fertilizzanti chimici, e ancora da impianti industriali tossici, piattaforme petrolifere, chiatte “lente, sporche e solenni, colme di petrolio e derivati, alimentari e materiali da costruzione” che “fanno su e giù sull’Intracoastal Waterway”.
Per sopravvivere in luoghi come quelli (una cartolina dal futuro per chi si trova alle nostre latitudini?) conta saper padroneggiare “i normali preparativi per la battaglia con gli elementi”, certo. Ma per vivere bene laggiù, ai personaggi di Quel che resta del fiume non basta essere pronti come individui: a dare un senso sono i piccoli gruppi dai legami saldi, che non rinunciano per nulla al mondo alla convivialità, alla festa, alla condivisione delle piccole gioie, così come del tocco di disastro. Senza queste relazioni, forti come rami di querce che resistono agli uragani, Rhys non avrebbe saputo accogliere Belle, la figlia di Sal comparsa all’improvviso a Des Allemands, né sarebbe riuscito a sostenere tutto quello che accadde dopo. Da queste isole di relazioni ognuno dei personaggi è libero di ripartire verso nuove mete, chi con leggerezza e chi con maggiori difficoltà: quei legami non si spezzeranno con la distanza. Quando Rhys si trova in un momento di svolta della propria vita e il corso degli eventi sembra trascinarlo a Londra, sarà il suo amico Marc, “elfo metropolitano”, ex docente di storia economica all’università e attento indagatore del presente in chiave “apertamente marxista” a fugare i suoi dubbi sulla partenza: “Siamo tutti sradicati, non ti pare? O abbiamo tante radici che corrono lontane le une dalle altre, che s’incrociano e divergono”.
Quel che resta del fiume gioca sulle stratificazioni e sui continui rimandi tra epoche e spazi in apparenza lontani, fatti storici e letteratura, includendo in questo flusso anche la crisi finanziaria, quella climatica, i processi di gentrificazione esito della rigenerazione urbana di luoghi come il Lower East Side a New York o l’East End a Londra, senza considerarli come fossero eventi singoli. “Si finisce per isolare il problema, lo si trasforma in un dato di fatto, senza spiegarlo, senza risalire alle sue origini. Non credi invece che sia un’altra tappa di un processo che viene da lontano?”, chiede Marc a Rhys, mentre segue il dibattito che si sviluppa su una rivista marxista di New York, The New Bullettin.
Il romanzo di Maffi riveste certamente un interesse per chi è appassionato di letteratura realista e naturalista: Twain, Faulkner, Wright, London e molti altri compaiono con discrezione qua e là nel testo. Quel che resta del fiume potrebbe però suscitare altrettanto interesse in chi ha che fare con lo studio di città e territori contemporanei ed è sensibile al passaggio all’epoca della cosiddetta urbanizzazione planetaria. Se, come ormai è stato scritto da tempo, tutto è urbano, resta da capire quale distanza separi ancora le agglomerazioni più dense dai luoghi più remoti, ma funzionali alla loro esistenza. I cosiddetti paesaggi operazionali (o anche hinterland del Capitalocene), di cui parlano gli urbanisti Neil Brenner e Nikos Katsikis, sono innervati da infrastrutture attraverso cui scorrono flussi d’acqua, energia, petrolio, merci, corpi diretti verso i grandi centri. Rintracciare le infrastrutture e disegnarne le connessioni serve, ma non basta. Resta da comprendere la vita quotidiana in questi margini che sono spesso avanguardie, alle foci dei fiumi e non solo.
Come mostra Belle, la figlia di Sal piombata a casa di Rhys in mezzo a una tempesta, per orientarci abbiamo bisogno di mappe che abbiano “a che fare con la materialità dell’esistenza, con i nostri percorsi nel mondo”. Maffi queste mappe le sa disegnare da tempo con le proprie parole. Non a caso, in passato è stato premiato con il prestigioso Prix Ptolomée pour la gèographie per il suo Mississippi tradotto in francese. E un’altra di queste mappe fatte di parole torna alla mente osservando il paesaggio contenuto nella grande finestra della casa di Sal a Gravesand, al termine del Tamigi, dove si recherà finalmente Rhys dopo tante esitazioni. Maffi non ha bisogno di tracciare di nuovo questa mappa, può lasciare spazio alle emozioni e ai ricordi di Sal e Rhys. Ma se ne avessimo bisogno, la potremmo trovare in uno dei suoi saggi precedenti, Tamigi. Storie di fiume: “E c’è infine il Tamigi dell’estuario: il fiume moderno e industriale, ancora di Charles Dickens e poi di Joseph Conrad, del porto e dei cantieri navali, delle grandi flottiglie militari e mercantili, dei magazzini e degli attracchi, dei traghetti e delle pilotine, delle raffinerie e delle centrali, dei portuali (dockers), dei contrabbandieri (smugglers), di coloro che frugano tra le acque e il fango (mudlarks) – insomma, il fiume del capitale, dei commerci e dell’impero, che da Londra va al mare e a quel punto si apre al mondo”. (gloria pessina)