Ma se questo è il senso generale dell’operazione, occorre leggerla meglio nel merito, nei suoi lati forti e deboli, perché qui non si tratta solo di scambio (rilevantissimo) fra vite umane, ma del “day after”, un «riassetto dell’intero equilibrio mediorientale, che è l’unica strada per la regione di trovare una strada al benessere e alla convivenza di tutti». Parole pronunciate dal Segretario di Stato Blinken la scorsa settimana, alla sua sesta missione in Medioriente, durante la quale si è preso prima un bel no a una pausa militare da Netanyahu, e poi si è recato, con spettacolare carovana di auto schermata da uno scudo protettivo aereo, a Ramallah, per un lungo colloquio con Abu Abbas, Presidente della Pa.
Il consenso fra Hamas e Pa, risolve in effetti due passaggi particolarmente delicati per poter far passare la guida del futuro di Gaza dalle mani degli estremisti a quella della Autorità Palestinese. Per farlo è stato immaginato un cambio di governo, che però regge solo se c’è il consenso di Hamas. Consenso finora non scontato, perché l’organizzazione ha il controllo del parlamento palestinese. Ricordiamo qui la struttura di questo governo: Il Parlamento è composto da 128 seggi, dei quali, nelle ultime elezioni nel 2006, Hamas ne ha presi 72. Il governo è composto da 22 ministri, in cui ci sono tutte le varie organizzazioni, Incluso Hamas e Jihad. Accanto al governo c’è poi un consiglio del Plo, che non c’entra con il governo, ma che il Presidente consulta sempre. Una sorta di governo parallelo. Far entrare Hamas in questo Consiglio è stata la proposta americana.
In questa organizzazione Hamas e Jihad avrebbero voce politica, ma sarebbero in minoranza. Perché dunque hanno accettato? Perché se si va verso un governo di transizione che porta alle elezioni, l’attuale assetto (parlamento e governo) dove Hamas è in maggioranza comunque verrebbe di fatto sciolto. Per questo il sì a unirsi all’Olp è legato anche al consenso a un governo di transizione che porterà alle elezioni. In un periodo di tempo di due anni – cioè il tempo che gli usa considerano fisiologico per descalare la situazione di tensione. È vero tuttavia che il si di Hamas odora molto di stanchezza e un po’ anche di sconfitta.
Infine, l’unità nel Consiglio risolve anche uno dei nodi più difficile da sciogliere della trattative sul futuro della pace: affidare la guida di Gaza alla Pa, unificando la Striscia al West Bank. Il Consiglio sarebbe incaricato della Sicurezza e della ricostruzione di Gaza senza dover muovere nemmeno un uomo. Il Plo ha infatti nella Striscia già 50mila dipendenti, pagati dalla sua tasca, di cui 31mila amministrativi e 19mila polizia. La task force militare e politica ci sarebbe già, dunque, senza nessun movimento di uomini e risorse.
Naturalmente stiamo parlando del “Day After”, che è l’idea Usa: mentre si combatte si può costruire un’alternativa, solo se questa alternativa è già visibile. È un passo di lungo termine, forse più immaginario che reale, ma sicuramente galvanizzante per i colloqui in corso per la sospensione dei combattimenti. Ieri i capi delle Intelligence del paesi del quartetto che finora ha guidato l’ultima fase delle trattative, hanno ripreso al Cairo i colloqui, con una sorta di nuova verve. Si parla ora di nuovo di una pausa di sei settimane per lo scambio prigionieri/ostaggi.
È ripartito così il meccanismo finora sempre affossato dal semplice no di Benjamin Netanyahu e da quello di Yaya Sinwar, il capo militare di Hamas. I due nemici, i due opposti campi, i due-fino -alla-morte, un perfetto Giano bifronte del consenso fra estremi hanno funzionato ottimamente. Ma è bastato che uno di loro si sganciasse perché tutto si riavviasse. Lasciando il cerino in mano all’altro. Peccato per Israele che il cerino sia rimasto in mano a Netanyahu. Funzionerà per il Paese come lezione di realismo?